JERRY CANTRELL I Want Blood

di Francesco Sicheri
01 ottobre 2024

intervista

Jerry Cantrell
Jerry Cantrell
I Want Blood
Jerry Cantrell ci ha preso gusto, e dopo il successo di "Brighten" uscito nel 2021, non ha lasciato passare troppo tempo per rimettere mano alla chitarra e tornare in studio di registrazione. "I Want Blood", in uscita il 18 ottobre prossimo, è il risultato del nuovo exploit creativo di Cantrell che, come di consuetudine, non si è lasciato scappare l’opportunità di calcare un po’ la mano sulla distorsione.

Era servito aspettare più di vent’anni perché Jerry Cantrell sentisse il bisogno di dare un seguito a Degradation Trip del 2002, ma il ritorno in studio di registrazione del chitarrista degli Alice In Chains ha sortito l’effetto sperato. Nel 2021 Brighten ha riportato il musicista di Seattle sotto la giusta stella creativa, e l’accoglienza riservatagli da pubblico e critica è stata più che entusiastica. Guidato dal clamore generato da Brighten , Cantrell ha deciso di affidarsi nuovamente al suo istinto senza lasciar passare troppi mesi dopo la fine del tour di supporto all’album.

Se il predecessore si era dimostrato un album stratificato, dalla prominente diversità compositiva, I Want Blood tuona come un martello sull’incudine. Per la sua nuova fatica discografica...

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Cantrell sembra aver mollato i freni e lasciato che la potenza di quel suo playing così riconoscibile tornasse a farsi sentire ancora una volta. Così come successo tre anni fa per Brighten, anche in quest’occasione abbiamo accolto di buon grado la possibilità di fare quattro chiacchiere con Jerry Cantrell e questo è quello che ci ha raccontato.

Ciao Jerry, è bello risentirti. Come stai?
Hey! Qui tutto bene, non mi posso certo lamentare.

L’ultima volta che abbiamo fatto due chiacchiere è stato in occasione dell’uscita di Brighten. Ti sei sempre tenuto occupato in questi ultimi due anni?
A sufficienza, direi. [ride] Quando abbiamo finito il tour di supporto a Brighten le cose sono andate in maniera un po’ diversa dal solito. In generale alla fine di un tour ho sempre bisogno di distaccarmi dal mio lavoro per un po’, ma questa volta non ho sentito quel tipo di necessità. Ho iniziato abbastanza presto a lavorare sul materiale che poi è finito in I Want Blood . Quello che è successo con Brighten è stata una vera sorpresa, perché l’album ha riscosso un successo molto più importante di quanto avrei mai pensato, e pertanto penso di essermi sentito molto motivato dall’entusiasmo derivante dall’uscita dell’album e dal tour.
Ho iniziato presto a sentire il bisogno di tornare a lavorare su delle nuove demo, che di solito sono un processo che dura circa tre o quattro mesi.

A proposito delle demo, è cambiato molto il modo in cui prepari le bozze dei tuoi brani prima di entrare in studio di registrazione? Si tratta di demo molto dettagliate o di bozze che ti servono per avere una traccia generale dell’idea?
Penso siano delle bozze abbastanza dettagliate. Non sono capace di scrivere in anticipo ogni dettaglio, anzi penso che per il mio modo di essere potrebbe rivelarsi controproducente, ma mi piace riuscire ad avere un’idea sufficientemente completa di quanto andrò a registrare in seguito. Negli anni penso di aver trovato un buon equilibrio fra il voler continuamente affinare una demo, e il lasciare spazio perché alcune cose accadano in maniera organica in studio di registrazione. Una demo troppo lavorata si può trasformare in un cane che si morde la coda, pertanto non voglio mai esagerare.

Una cosa molto interessante è che I Want Blood è un album molto diverso da Birghten, eppure hai iniziato a lavorare su queste tracce con ancora fresche sotto le dita i brani del precedente lavoro…
Sì, è interessante come concetto. Penso però che chiunque guardi alla mia discografia non potrà mai dire di trovare due album uguali. Ovviamente la mia firma sonora è presente in tutto quello che ho fatto, sia da solista, sia con gli Alice In Chains, ma ogni album ha una sua dimensione specifica. Un vantaggio che mi sono guadagnato negli anni è di non dovermi preoccupare che le persone non riconoscano il mio suono ed il mio stile. Penso di avere un’impronta musicale molto incisiva, e questo mi permette di poter spaziare in qualsiasi tipo di ambito senza la paura di non essere identificato. Inoltre, credo che nei primi anni degli Alice In Chains abbiamo rischiato molto, provando a cimentarci con materiale molto variegato, e quel tipo di esperienza è rimasta con me durante tutta la mia vita fino ad oggi. Credo che ancora oggi l’aspetto più divertente sia iniziare a lavorare ad un album e cercare di capire dove andrà a parare in maniera naturale. Non inizio mai a scrivere un brano volendo decidere a priori in quale “categoria” musicale si collocherà.

E senza dubbio Brighten e I Want Blood hanno preso strade molto diverse.
Infatti. Quando ho iniziato a scrivere Brighten è stato subito abbastanza chiaro quale tipo di direzione l’album avrebbe preso, e lo stesso vale per I Want Blood . Inoltre mi piace pensare che, in fin dei conti, sia la musica a trovare la sua strada verso le persone. Alcuni brani non sono sempre così importanti per chi li scrive, eppure nel mondo si può sempre trovare qualcuno che li percepisce in maniera molto più profonda. È il bello del mestiere.

Una delle peculiarità che emergono immediatamente da I Want Blood è il fatto che si tratta di un lavoro musicalmente molto più intenso, sicuramente più heavy, di Brighten. Il concetto di pesantezza sonora però è qualcosa che non ha sempre a che fare con la sola chitarra distorta, non credi?
Sono pienamente d’accordo. Personalmente mi piace credere che ci sia un elemento “heavy” in qualsiasi cosa io faccio. A dire il vero guardando ai testi di Brighten non è difficile capire che si tratta di un album molto pesante, ma semplicemente non è caratterizzato da quelle distorsioni e dal quel piglio che invece ha I Want Blood .

Probabilmente I Want Blood è un album più heavy nella maniera più tradizionale del termine.
Sì, questo è sicuro. A volte quando penso al nuovo album mi ricorda il suono di Seattle sul finire degli anni ‘80. I Want Blood ha una sua oscurità molto affascinante.

It Comes è sicuramente una delle tracce che ci ha lasciati più colpiti. Un brano che si muove molto e che cambia spesso.
Grazie, è un bel complimento. Sapete, è difficile per me guardare ai brani dell’album in maniera distaccata, perché quando lavoro ad un nuovo progetto sono sempre così coinvolto che diviene un’entità unica. Devo ammettere però che quando vado a comporre la tracklist di un album ho sempre abbastanza chiaro in mente come deve iniziare e come deve finire. It Comes era semplicemente perfetta per chiudere I Want Blood , in un certo senso è quasi un riassunto di molte delle cose ascoltate fino a quel momento. Lo stesso vale per Vilified , che si è subito dimostrata come l’apertura più sensata. It Comes bilancia Vilified con un senso di grandeur che è perfettamente agli antipodi rispetto allo stile più grezzo del brano di apertura.

Sai Jerry, quello che stai descrivendo è un processo che diventerà presto un’arte dimenticata. Oggi la musica si muove principalmente su singoli brani pubblicati in maniera separata, il che non sembra assolutamente qualcosa che ti appartiene.
Non lo è. Sono cresciuto concependo la musica come un lavoro che si svolge attraverso degli album, e questo è l’unico modo in cui so approcciare la mia creatività. Sicuramente anche da I Want Blood emergeranno tre o quattro brani più eminenti, che diventeranno dei buoni singoli, ma il contenitore dell’album è ciò che li rende capaci di lavorare in maniera più sensata sul piano comunicativo. Sono certo che all’interno di un album ci siano brani fatti per i fan ed altri fatti per me stesso, perché anche soddisfare i propri desideri è qualcosa di molto importante. A dire il vero nel mio lavoro penso che sia sempre importante prima soddisfare sé stessi, e poi preoccuparsi degli altri. È fondamentale sapere di aver fatto tutto quello che possibile, ed essere fiduciosi di poter lasciar andare l’album nel mondo senza rimpianti.

Certo forse questo è un vantaggio di chi ha già una carriera lunga alle spalle, non credi?
Senza dubbio. Bisogna sapersi guadagnare certi benefici. Oggi so che non mi interessa se un album 1 milione di copie o 1 copia soltanto. Ma è chiaro che si tratti di qualcosa che posso dire soltanto a questo punto della mia carriera. In modo un po’ idealista, però, mi piace pensare di aver sempre avuto questa mentalità, quella che mi ha permesso di concentrarmi sul dare il meglio senza pensare troppo a quante persone avrebbero apprezzato il mio lavoro.

Probabilmente è un altro di quegli aspetti che derivano direttamente dall’esperienza fatta con gli Alice In Chains, non trovi?
Ne sono certo. Con gli Alice abbiamo sempre messo il nostro suono e la nostra musica davanti ad ogni altra cosa. Sapevamo che questo ci avrebbe chiuso alcune porte, ma non siamo mai stati in grado di preoccuparcene troppo. Nella vita di qualsiasi artista deve arrivare il motivo in cui si inizia a fare i conti con il fatto di non poter controllare il modo in cui le persone reagiscono a ciò che fai. Ripeto, oggi è più facile rispetto a quando abbiamo iniziato. Sono sempre stato felice quando un nostro brano è finito ai primi posti delle classifiche, e quando è successo la nostra carriera ne ha guadagnato notevolmente, ad ogni modo arrivare ai primi posti delle classifiche non è mai stato il primo obiettivo. Mi spiego?

Tutto chiaro. Brighten (2021) è arrivato dopo 20 anni di pausa rispetto a Degradation Trip (2002), ma per I Want Blood non hai voluto aspettare così a lungo. Credi che questo sia dipeso dal fatto che i tuoi album solisti ti permetto di esprimere cose che altrimenti non avresti fatto con gli Alice?
È molto probabile, ma seguire il mio istinto è l’unico modo che conosco per sentirmi bene come artista. I Want Blood è arrivato molto più velocemente semplicemente perché ho sentito il bisogno di scrivere nuova musica. Se penso ai due album Degradation Trip 1 e 2, anche a quel tempo è successo che l’ispirazione mi portasse a realizzare due album a breve distanza. Riguardo a quello che posso fare al di fuori degli Alice In Chains credo che sia una condizione naturale, perché tutti i membri della band hanno sempre fatto musica al di fuori degli Alice. Per quanto la band sia una proiezione di chi ne fa parte, arriva un punto in cui si trasforma in un contenitore, e non è raro per chi sta in quel contenitore di sentire il bisogno di esprimersi anche in altri modi. Allo stesso tempo non sono convinto che quello che faccio fuori dagli Alice In Chains sia radicalmente diverso da quello che ho registrato con la band, semplicemente sono due proiezioni della stessa persona.

C’è qualcosa che è cambiato rispetto a quello che cerchi nella musica?
Non direi, in questo senso sono una persona molto “lineare”. Sono molto grato del fatto che il germe della musica mi abbia infettato fin da quando ero molto giovane, e soprattutto sono grato del fatto che la convinzione e la spinta necessaria a tenere duro non mi abbiano mai abbandonato. Sono sempre guidato dal voler creare qualcosa di nuovo, e non ho mai bisogno di sforzarmi troppo per cercare la motivazione. Penso che questa sia la cosa più importante. Riguardo a quello che io stesso cerco nella musica, è sempre lo stesso tipo di completamento di qualcosa che manca. Fare musica mi completa, e credo che sia qualcosa che richiede il più alto grado di convinzione. Fare musica ad alti livelli richiede fede nell’idea e nel progetto, e penso che non aver mai perso questo tipo di convinzione sia la mia dote più grande. Ho sempre avuto in mente chiaro il mio obiettivo, e mi sono sempre dedicato al raggiungerlo. Man mano che gli anni passavano mi sono accorto che più cercavo di essere come i miei eroi, più lo stavo diventando senza accorgermene.

Probabilmente lo stesso si può dire del tuo rapporto con la chitarra. E ascoltando I Want Blood è percepibile che nel tuo lavoro c’è ancora un’importante componente di divertimento. In alcuni riff dell’album questa sensazione risuona molto forte.
Oh sì. Mi sono divertito davvero molto mentre registravo I Want Blood . All’inizio ero un po’ titubante perché per la prima volta non ho avuto Paul Figueroa al mio fianco durante la scrittura. Ad ogni modo le cose sono andate per il meglio, e credo che il risultato sia qualcosa che parla da sé. Joe Barresi, che conosco da molti anni, è subentrato come partner creativo e co-produttore, e probabilmente questo cambio mi ha portato a sviluppare alcuni aspetti dell’album in maniera diversa da quanto avrei fatto solitamente. Anche Maxwell Urasky ha giocato un ruolo fondamentale, perché ci siamo chiusi in studio per quattro mesi e non abbiamo fatto altro che lavorare sulle bozze. Tyler Bates, Robert Trujillo, e ovviamente Duff McKagan sono tutti amici che hanno collaborato ancora una volta ad un mio album, e questo non ha fatto altro che creare un mood estremamente stimolante e divertente.

Proprio Duff McKagan ci ha rivelato qualche mese fa che tu e lui avete un sogno nel cassetto, ovvero un album acustico insieme…
Oh sì, è vero. Ne parliamo spesso quando ci vediamo per guardare qualche partita di football. Ormai ne discutiamo da anni, ma ancora non abbiamo preso la decisione di mettere tutto nero su bianco. Mah, forse in un futuro non troppo lontano…

Jerry, è arrivato il momento di parlare un po’ di chitarre e strumenti.
Sono sempre pronto.

Cosa hai usato per questo album? C’è stato qualche cambiamento importante nel tuo solito setup in studio?
Direi che il cuore del setup è rimasto fondamentalmente lo stesso. Joe Barresi è un vero scienziato del suono, e possiede una quantità spropositata di chitarre, così come di ogni tipo di amplificatore, pedale o outboard per lo studio. Inoltre Joe ha una conoscenza enciclopedica di quello che è stato utilizzato per realizzare gli album più famosi della storia, oppure i suoi più iconici. Quindi lavorare con lui è stato incredibilmente stimolante. Per quanto riguarda gli amplificatori ho usato sia la mia testata Friedman signature, sia le mie vecchie testate modificate da Bogner, e ho anche rispolverato i preamp Bogner Fish… Quello è stato un vero salto nel passato, perché li avevo lasciati abbandonati in garage per molto tempo e non ero neanche sicuro funzionassero ancora. Alla fine direi che gran parte di questo album è stato registrato con il mio vecchio preamp Fish ed un finale Fryette.

Un vero ritorno agli albori per te.
Sì, decisamente. Anche se poi durante le registrazioni abbiamo inciso molte tracce con altri amplificatori, come ad esempio la mia Friedman JJ. In generale direi che il preamp Bogner Fish è stato il protagonista per quanto riguarda l’amplificazione.

Per il comparto effetti hai sperimentato con qualcosa in particolare?
Le solite cose. Su I Want Blood c’è molto Dunlop Talkbox e ovviamente anche molto del mio Dunlop Wah, ma non riuscirei mai a ricordare tutti i pedali che ho alternato per queste registrazioni.

E passando invece alle chitarre? Cosa hai usato per questo nuovo album?
Direi che le tre chitarre principali sono chitarre che mi accompagnano da una vita, e con questo voglio dire le due G&L “No War” e “Blue Dress”, così come la mia vecchia Les Paul “D-Trip”. Ho registrato anche alcune tracce con una baritona, della quale non ricordo il nome però. Ad ogni modo le parti che contano sono state registrate dalle stesse tre chitarre che uso ormai da tantissimi anni.

A proposito di Les Paul, di recente Epiphone ha svelato ben due nuovi modelli che portano la tua firma. Si tratta di una versione più accessibile della Wino già realizzata dal Custom Shop Gibson, e di una Les Paul Prophecy. Quanto sei stato coinvolto nel processo di creazione di questi strumenti?
Devo dire che è sempre bello poter partecipare ad operazioni simili, anche se nel caso della Epiphone Wino Les Paul si è trattato soprattutto di provare a replicare la versione realizzata da Gibson in una formula più economica. Per quanto riguarda la Prophecy ho provato alcuni prototipi e ho lavorato con Epiphone provando a dare le mie opinioni perché si potesse raggiungere il miglior risultato possibile. Per entrambe le nuove chitarre mi ritengo molto soddisfatto. Sono strumenti onesti, che suonano bene e che non costano troppo. Ora mi piacerebbe poter proseguire la collaborazione con altre chitarre…

Hai già in mente quali?
Senza dubbio la mia Les Paul D-Trip. Se dovessi scegliere una chitarra per la quale realizzare una nuova edizione limitata insieme al Custom Shop Gibson, quella sarebbe sicuramente la LP D-Trip. Mi accompagna da moltissimi anni, e credo che sia una di quelle chitarre in grado di cambiare le sorti di un album.

Dopo tanti anni hai capito cos’è che la rende così speciale?
Una combinazione di cose, che alla fine si percepiscono come una sensazione sotto le dita. Penso che l’uso prolungato nel tempo abbia un effetto molto importante su una chitarra. I legni vibrano di più e, in generale, rispondono in maniera più profonda.

Probabilmente è anche una questione di abitudine tattile. Ormai le tue dita conoscono il manico e la tastiera in un modo che è quasi simbiotico…
Assolutamente vero. È il bello delle chitarre. Ne puoi provare 100, e tutte e 100 ti daranno una sensazione diversa. Quando trovi quella giusta per te è difficile sostituirla, e per me D-Trip è questo. È quella chitarra che ha una personalità perfettamente compatibile con la mia. Lo stesso vale per le G&L No War e Blue Dress, ed è il motivo per cui dopo anni continuo a usarle anche avendo a disposizione qualsiasi altro strumento il mercato può offrire. Il fatto di averle suonate così tanto ci ha connessi sempre più… Se non sbaglio ho acquistato la LP D-Trip nel ‘94, o forse nel ‘95, se non sbaglio il disco omonimo degli Alice è quello per cui ho usato D-Trip in maniera più estesa. Da quel momento in poi non mi ha mai abbandonato.

Jerry, purtroppo sappiamo di doverci lasciare. Speriamo di vederti presto live dalle nostre parti.
Grazie per la chiacchierata, è stata molto piacevole. Sarò sicuramente da voi durante la prossima estate, quindi cercate di non mancare.

Non lo faremo.
Statemi bene.



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