AC/DC Let There Be Rock
di Eugenio Palermo
01 giugno 2025


La storia immortale degli AC/DC è quella di due ossuti fratelli scozzesi di neanche 1 metro e sessanta, Malcolm e Angus Young, partiti da una capanna di lamiera di un campo per immigrati nella sperduta Australia, con i buchi nei denti e nelle scarpe, e diventati i colossi del rock.
Gli Young hanno suonato sempre i soliti tre accordi aperti, ma i migliori, scolpiti con un timing implacabile e sgranati con un sound mastodontico, conquistando la vetta senza ballad o ritmi da disco, ma unicamente con seicorde crude e selvagge che hanno svezzato milioni di chitarristi alle prime armi. E allora, Let There Be Rock...
È il 13 luglio del 1978 e all’interno del Los Angeles Forum un quindicenne James Hetfield s’aggira come uno squalo fra la platea assatanata di watt. È il suo battesimo rock ed è lì per gli Aerosmith, ancora tramortito dai riff che Rocks (1976) gli aveva rovesciato in testa come un sacco di mattoni. Ma prima degli Aerosmith tocca a degli sconosciuti sbarcati dall’Australia ma di sangue scozzese. In un’epoca dove le band si truccano per accattivarsi i fan, gli australiani salgono sul palco in jeans e maglietta, duri e sdruciti come muratori...
l'articolo continua...
Gli Young hanno suonato sempre i soliti tre accordi aperti, ma i migliori, scolpiti con un timing implacabile e sgranati con un sound mastodontico, conquistando la vetta senza ballad o ritmi da disco, ma unicamente con seicorde crude e selvagge che hanno svezzato milioni di chitarristi alle prime armi. E allora, Let There Be Rock...
È il 13 luglio del 1978 e all’interno del Los Angeles Forum un quindicenne James Hetfield s’aggira come uno squalo fra la platea assatanata di watt. È il suo battesimo rock ed è lì per gli Aerosmith, ancora tramortito dai riff che Rocks (1976) gli aveva rovesciato in testa come un sacco di mattoni. Ma prima degli Aerosmith tocca a degli sconosciuti sbarcati dall’Australia ma di sangue scozzese. In un’epoca dove le band si truccano per accattivarsi i fan, gli australiani salgono sul palco in jeans e maglietta, duri e sdruciti come muratori...
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a fine giornata e con quel micro-solista alla chitarra, vestito come uno scolaretto.
Nessun piercing e nessun tatuaggio in vista, tranne quelli da galeotto del frontman dalla voce impastata di bourbon; nessun rack fantascientifico, solo le loro chitarre infilate nei Marshall torreggianti alle spalle. Si chiamano AC/DC, non gliene frega un cazzo di nessuno e sono decisi a fare sul serio. James Hetfield alla fine rimane folgorato da quella fitta sassaiola di epilettici accordi rock'n'roll e da quelle ritmiche brutali e squadrate che riverserà cinque anni dopo nei solchi di Kill ’Em All, l’esordio dei Metallica e della rivoluzione thrash metal. Perché se c'è una band che incarna il rock'n'roll nel suo senso più duro e puro sono proprio loro, gli AC/DC.
Dai loro primi sgangherati show nei pub di Sydney, quando schivavano le bottiglie e le risse che partivano dalla platea, fino ai centomila invasati dell’autodromo di Imola del 2015 (dove torneranno il prossimo 25 luglio 2025), il loro è un percorso scandito da riff irresistibili e da una coerenza incrollabile. Non hanno inventato la ruota ma l’hanno fatta derapare come pochi, consumandola fino al cerchione in più di mezzo secolo ad altissimo voltaggio.
Tra i titani del rock solo i Rolling Stones stanno spalla a spalla con gli AC/DC in termini di longevità. Con oltre 200 milioni di album venduti in tutto il mondo nel corso del loro mezzo secolo di carriera, la band australiana vanta il secondo album di studio più venduto di tutti i tempi: Back In Black (1980), secondo solo a Thriller di Michael Jackson. Il successo planetario di una formula tanto basica e ripetitiva da lasciare stupefatti...
Gli AC/DC hanno maneggiato il rock con un’attitudine da eroi della classe operaia, concentrati unicamente sul riff e sul ritmo col preciso cronometraggio a quattro di Phil Rudd dietro al drumkit, ingrassato e oliato dal basso di Cliff Williams e squarciato dagli accordi spaccamontagne della Gretsch di Malcolm Young, capaci di far sembrare irregolare un metronomo, lasciando la scena alla trance agonistica di Angus Young e alla sua indiavolata Gibson SG, con la voce laddish del carismatico Bon Scott (e più tardi del grandioso Brian Johnson) a trainare ritornelli a squarciagola.
Il merito degli AC/DC è di aver dopato l’hard rock esangue della metà dei ‘70 con dosi da cavallo di R&R dei ‘50, spolpandolo del prog dei Deep Purple e dell’aura divina dei Led Zeppelin, riducendolo all’osso: i riff infernali di Chuck Berry, il boogie rotolante di Billy Gibbons, il pachidermico blues elettrico di Muddy Waters, la tigna del pub rock più ignorante.
Hanno combattuto sul serio, gli AC/DC, per ogni fottuto centimetro guadagnato per arrivare a quella vetta e guardare tutti dall’alto, attraversando a tutto gas e a muso duro lutti, split, risse, rehab e risorgendo sempre come una fenice. Grezzi, diretti, feroci, spassosi. Gli AC/DC non sono i più talentuosi ma i duri più duri dell’hard rock.
VERSO L’AUSTRALIA
Quanta strada fatta dai fratelli Malcolm (classe 1953) e Angus Young (classe 1955), partiti dal duro ghetto operaio di Cranhill (Glasgow, UK), ultimi di otto figli tenuti a bada dalla loro madre Margaret, mentre il padre William porta a casa la pagnotta avvelenandosi i polmoni e spaccandosi la schiena come verniciatore in un cantiere navale. Fino a quando il famigerato Big Freeze del 1963 (il peggior inverno mai registrato nel Regno Unito) che seppellisce di neve la Scozia, spinge William, come molti altri scozzesi (incentivati fortemente anche dal governo) a levare le tende e cercare fortuna nella remota Australia.
Ad accogliere il clan degli Young è il Villawood Migrant Hostel fuori da Sidney, un campo per immigrati europei fatto di spartane capanne Nissen, quelle strutture prefabbricate in acciaio ondulato piegato a metà cilindro, utilizzate come caserme durante le due guerre.
Ci vorranno un paio di anni prima che gli Young abbandonino quel tugurio di lamiere e si trasferiscano finalmente in una casa vera, a Burwood, un sobborgo di Sidney.
A casa Young tutti masticano musica. La sorella Margaret, l’unica femmina di quella nidiata di maschi, è una appassionata incallita di blues e jazz; il fratello Alexander farà strada come sassofonista e bassista al seguito di Tony Sheridan (e sarà presto assunto a Londra come autore di canzoni dalla società di edizioni musicali dei Beatles), mentre George diventerà la potente chitarra ritmica degli Easybeats (la prima rock band australiana che sfonda in Europa ed entra nella UK Chart nel 1966). Nel mentre, gli ultimi due Young hanno già iniziato a strimpellare corde: Malcolm con una scalcinata acustica comprata da sua madre Margaret ed Angus con un rustico banjo.
Vedere le fan di George assiepate fuori casa, fissa nella testa dei due Young più piccoli l’obiettivo di scrollarsi la fame di dosso diventando famosi con il rock; a quel punto, le due giovani canaglie mollano la scuola e iniziano a lavorare dove possono. E sarà proprio George a insegnare i primi rudimenti di chitarra a Malcolm, il quale si svezza su Beatles, Stones, Who, Fleetwood Mac, John Mayall, imbracciando una vecchia Hofner usata... che finirà nelle mani di Angus quando il leggendario Harry Vanda (immigrato olandese divenuto compare di George negli Easybeats) regalerà a Malcom una Gretsch Jet Firebird rossa del 1963.
I due ultimogeniti di casa Young sono teste calde e se le danno di santa ragione; è naturale che inizialmente ciascuno metta su la propria cover band. Se da un canto Malcolm impazzisce per Townshend, Green, Bolan, i Free e il suono croccante di una Gretsch, dall’altro canto Angus stravede per Berry, Hendrix, Cream, Beck, Mountain e i morsi di una Gibson SG (una mitologica “Diavoletto” del ’69 col manico sottile che ben si adatta alle sue piccole mani, e che ha comperato di seconda mano nel ’70 lavorando in una tipografia). A mettere d’accordo i due fratelli, Animals, Yardbirds e Buddy Guy.
Quando Malcolm decide che è venuta l’ora di mettersi in proprio, recluta i soldati più truci di Sidney per dichiarare guerra al mondo: Dave Evans come frontman, Larry Van Kriedt al basso e Colin Burgess alla batteria. Tuttavia, Malcom sente che alla torta manca una grossa ciliegina: così, pur essendo un ottimo solista, chiede ad Angus unirsi alla gang. William preferirebbe che quei due figli imparassero un mestiere, visto che due rockstar in famiglia bastano e avanzano: “Non durerete una settimana”, bofonchia più di una volta. Dureranno invece 40 anni.
ALTERNATING CURRENT/DIRECT CURRENT
George Young annusa il profumo dei dollari e dapprima assolda i fratelli Malcom e Angus nella Marcus Hook Roll Band, il gruppo che ha messo su con Harry Vanda e che nel 1974 registrerà l’album di debutto Tales Of Old Grand-Daddy. Il quintetto messo in piedi da Malcom Young però non ha ancora un nome, ma è la sigla A.C./D.C. (Alternating Current/Direct Current) che sua sorella Margaret ha scritto sull’alimentatore della macchina per cucire a fornire il giusto input, perché, sì... condensa alla perfezione l’elettricità fragorosa che vogliono scatenare. L’ultimo giorno del 1973 gli AC/DC debuttano al Chequers, un bar cabaret di Sydney: sono ancora incerti fra Chuck Berry e T-Rex ma puntano tutto sul live, spingendo anche di più, pur se davanti hanno pochi debosciati alticci: “Sfondiamo i loro timpani così la prossima volta torneranno con gli amici!” A gennaio del 1974, grazie alla produzione dell’accoppiata George & Vanda, gli AC/DC registrano un pugno di brani negli Studios della EMI di Sidney, fra cui quel Can I Sit Next To You Girl che sei mesi dopo sarà il loro primo singolo pubblicato.
Nei live che seguono nei mesi successivi, Angus sale sul palco vestito ora da Spiderman ora da Superman, fino a quando Margaret gli suggerisce di indossare la divisa della Ashfield Boys High School. Malcom è d’accordo ma Angus non ne vuole sapere. Figurarsi. La band suona nei pub, la loro audience è fatta di bikers capaci di farti a pezzi se hai bisogno di due minuti per cambiare una corda. Ma a Malcolm non si può dire no e, quando è giunto il momento, Angus viene spedito sul palco a pedate nel sedere. Per evitare di essere il bersaglio facile dei boccali di quei teppisti, Angus suonerà senza mai fermarsi un attimo, sfoderando il suo marchio di fabbrica, una versione anfetaminica della duck-walk di Chuck Berry, facendo suo il consiglio di Malcolm: “Qualunque cosa succeda, tu continua a suonare!” Come quella volta che, finito steso su uno di quei piccoli palchi inciampando in un cavo d’intralcio alla sua frenesia, continuerà a mitragliare note da terra simulando l’orologio... Angus diventa subito la vedette, ma è Malcolm il boss della band, il songwriter principale, l’albero motore che fa funzionare i pistoni del dragster. E da buon scozzese, imposta gli AC/DC come un’emanazione del clan degli Young: o sei con loro o sei contro di loro. E non è una buona notizia.
Sbattuti via Van Kriedt e Burgess, Malcolm fa capire ad Evans a suon di noci sul grugno, che un cantante con le tutine sgargianti non c’entra nulla con l’energia primordiale che trabocca dalle loro chitarre... sì, perché per un rude ritmico che pare suonare con il filo spinato dentro l’amplificatore, ci vuole un frontman della stessa pasta. O peggiore. Come Bon Scott, anche lui immigrato scozzese e con una pellaccia già bella consumata.
BON SCOTT
Nato in Scozia nel 1946, Ronald Belford Scott è figlio di un panettiere con l’hobby delle percussioni che volerà nel 1952 in Australia, a Melbourne e poi a Fremantle, per dare
una vita migliore alla sua famiglia. A scuola Ronald viene ribattezzato Bonnie Scotland per quell’accento scozzese duro a morire, ma chissenefrega: a quindici anni saluta tutti e va a lavorare nei campi con in tasca il sogno di emulare Little Richard. Prima però ci sono nove mesi di riformatorio per furto di benzina, rissa e una lunga lista di altri guai e, una volta fuori, sbarca il lunario come può: operaio, meccanico, pescatore di gamberi, postino, mentre la sera sgomita in qualche fumosa birreria fra Adelaide e Melbourne come batterista/cantante e poi come frontman. Nel contempo, prova anche ad arruolarsi nell’esercito australiano ma, classificato come disadattato sociale, viene rispedito a casa. Fra una sbronza, una rissa e una malattia venerea, Bon assapora un assaggio di fama con i Valentines, per i quali scrivono anche gli onnipresenti Vanda & Young, e con i prog psichedelici Fraternity che si schiantano nel 1973. Pochi mesi dopo, nel maggio del 1974, Bon si schianta per davvero con la sua Suzuki, sbronzo e collerico dopo l’ennesima lite con la moglie, finendo in coma. Sembra il capolinea di una carriera mai veramente decollata, e invece è l’inizio di tutto.
Il solito George Young, di passaggio ad Adelaide nell’agosto successivo, con gli AC/DC che aprono per Lou Reed, confida in una telefonata al manager Vince Lovegrove (sodale di Bon Scott ai tempi dei Fraternity) che i suoi fratellini stanno cercando un nuovo cantante. Lovegrove suggerisce caldamente proprio Bon, disoccupato e con una carriera e un matrimonio finiti, ma i postumi dell’incidente motociclistico e la differenza di età lasciano scettico George.
Anche Bon è scettico. Ha sentito parlare di questi AC/DC: ma perché diavolo Lovegrove lo ha mandato a vedere una band con un cantante con i tacchi e un ragazzino che suona con la cartella sulla schiena? E invece... le chitarre degli Young buttano giù i muri del Pooraka Hotel e i timpani di Bon. E’ così che Bon Scott entra nella gang due mesi dopo, dapprima nelle vesti di autista.
Lo stile grezzo, lo humour feroce, l’attitudine proletaria e il carisma da rocker macilento di Bon Scott, sono il sapore che rende ancora più credibili le mazzate degli AC/DC. Per Bon, invece, gli AC/DC saranno invece l’ultimo treno...
HIGH VOLTAGE, T.N.T. E LA CONQUISTA DEL MONDO INTERO
Bon è il rocker scafato dai mille ganci: pare non ci sia bettola da Sidney a Perth nella quale la band entri senza che qualcuno non salti su gridando “Ehi Scott!” e offrirgli da bere. Con il sessionman Rob Bailey al basso oltre allo stesso George Young, e il catanese Tony Currenti alle pelli, oltre a Peter Clack per qualche intervento (e la produzione di Vanda & Young), gli AC/DC registrano High Voltage nell’ottobre del 1974 agli Albert Studios di Sidney. L’album uscirà il 17 febbraio 1975 per Albert Records/EMI e per il solo mercato australiano e neozelandese. È il primo colpo di cannone di questo galeone di pirati, anche se non ancora del calibro giusto e con una ciurma non ancora assestata.
La sezione ritmica non ha ancora dei padroni e la tetragonale distinzione dei ruoli dei fratelli Young ancora manca. Malcolm ha inaugurato l’assalto dei suoi power chords, ma ha ancora velleità da solista ed infatti sono suoi gli assoli e i fraseggi assassini in Soul Stripper, Show Business e Can I Sit Next To You Girl. Tuttavia, lascia ben presto la prima fila ad Angus che, con quel saltimbanco di Bon, diventano uno show nello show, guidando il timing da dietro e trovando il suo gemello ritmico in Phil Rudd, cavallo pazzo lituano dietro i tamburi, emulo di Simon Kirke e Kenny Jones che diventerà l’ingrediente segreto dell’irresistibile beating degli AC/DC.
Poche settimane ancora e il diciannovenne Mark Evans diventa il solido titolare del basso. Il singolo High Voltage viene presentato sul palco e s’impone nei live come il primo inno-manifesto degli AC/DC, nonché apripista del secondo album, T.N.T. uscito in Australia e Nuova Zelanda il 1° dicembre 1975. Mai titolo più azzeccato per un album: le audaci cornamuse di Bon Scott nell’eroico It’s A Long Way To The Top, il groove da hooligans della traccia che dà il titolo all’album (costruita sul ringhio di quattro accordi: A-C-D-C...), le fratture fragorose di Live Wire... insomma, tutto il celeberrimo sound degli AC/DC fuoriesce dai nove episodi della tracklist.
Sullo slancio dei due tripli dischi d’oro australiani – High Voltage e T.N.T. – Atlantic Records pubblica la versione internazionale di High Voltage (il 14 maggio 1976 in UK e il 28 settembre 1976 in USA), il quale preleva soltanto due tracce dalla versione australiana del disco e le restanti sette da T.N.T. La band si sfonda suonando ovunque. I tempi sono maturi per tornare nel Regno Unito da conquistatori. Per promuovere l’esordio degli AC/DC sul territorio britannico, la Atlantic li pianifica come gruppo spalla di Paul Kossoff, ma una embolia improvvisa si prende la giovane vita del chitarrista/fondatore dei Free, mentre è in volo da Los Angeles a New York. Addio Paul e addio tour britannico degli AC/DC. La band sbarca ugualmente in UK, alla ricerca di ingaggi. Hanno già registrato il singolo successivo, il boogie spigoloso di Jailbreak e quasi ultimato il loro terzo album, Dirty Deeds Done Dirt Cheap (1976): ora è necessario far esplodere il caricatore.
Quando gli AC/DC sbarcano nel Regno Unito, il Paese è sconvolto dal movimento punk nascente. Il loro rifarsi allo spirito primitivo del R&R dopo la pomposità del prog, suggerisce alla Atlantic l’idea di promuoverli come punk band... facendo incazzare di brutto il boss Malcolm Young.
Il loro debutto internazionale – High Voltage, 1976 – viene letteralmente stroncato dalla critica ma alla fine venderà tre milioni di copie soltanto negli Stati Uniti, dove uscirà nel settembre 1976. Arrivati come scappati di casa ed esordendo in un pub davanti a una trentina di persone distratte dai loro boccali, alla fine gli AC/DC e il loro Lock Up Your Daughters Tour, metteranno a ferro e fuoco il Regno Unito per un mese intero.
DIRTY DEEDS DONE DIRT CHEAP, LET THERE BE ROCK & CLIFF WILLIAMS
La band è una macchina da guerra ma il carburante di Bon è pesante: fra una rissa da bar finita a bottigliate e un collasso per eroina è un miracolo che non vada tutto a scatafascio. Malcolm beve come una spugna e Angus fuma come una ciminiera, ma sono distanti anni luce da pasticche e aghi. E sono incazzatissimi. Appena può, Bon scappa dal loro controllo e sparisce nelle sue notti brave.
Dirty Deeds Done Dirt Cheap esce il 20 settembre 1976 ed è così oltraggioso e degenerato che la Atlantic non lo pubblica negli Stati Uniti. Fra boogie gustosi e randellate hard blues, Bon bercia dei sogni milionari di chi ha i buchi nelle scarpe e nei denti, avendoceli davvero; di poveri cristi sbattuti al gabbio che immaginano di evadere come è capitato a lui; di sicari che offrono i loro servizi a prezzi stracciati (che nella realtà sarà Rudd a voler reclutare finendo ai domiciliari nel 2014). La fame degli AC/DC è vera. E si vede tutta nei loro instancabili, sudatissimi, forsennati show. L’Inghilterra lo ha capito ma la Atlantic, prima di lanciarli in America, pretende qualcosa di più edulcorato.
Incazzatissimi gli AC/DC eruttano invece lo squarcio di rumore a più alto numero di ottani mai affidato a un povero vinile: Let There Be Rock, il loro disco più duro e intransigente, il loro dito medio schiaffato sul muso di chi ancora pensa di poterli addomesticare. Non sfonderà, vendendo meno dei dischi precedenti, ma è il disco che metterà sugli AC/DC la taglia di ricercati numero uno.
Una potenza devastante e senza compromessi che spara la band ad un livello superiore. Malcolm una volta disse della musica della sua band: “È solo rock'n'roll rumoroso – wham, bam, grazie mamma!” e nessun album degli AC/DC incarna questo spirito selvaggio meglio di Let There Be Rock.
Pubblicato il 21 marzo 1977, l'album ha un taglio grezzo, un'intensità maniacale e un’attitudine stradaiola che attira sia i punk che gli headbanger metallari. E ha un suono che sfonda le casse. Le precedenti, sbilenche, produzioni di Young & Vanda non erano riuscite a catturare la magnitudo che la band scatena nei live, ma questa volta esagerano. Registrato in studio per lo più in diretta, l’album suona come se fosse sul punto di traboccare in un feedback totale. Gli errori sono ovunque ma tollerati quando aggiungono benzina all’incendiaria energia. E, soprattutto, Let There Be Rock è l’album ancora più chitarristico della discografia AC/DC, zeppo delle lunghe, furibonde, digressioni strumentali dei fratelli Young. Come nella title-track, autentico sermone inneggiante alle origini del rock'n'roll, ponte fra Roll Over Beethoven (Chuck Berry) e i californiani The Four Horsemen: addirittura, Angus Young delirerà l’assolo arrampicandosi sugli ampli e rotolandosi a terra tarantolato, non interrotto da George al ponte di comando neanche quando dal suo Marshall surriscaldato uscirà del fumo, imprimendone sul vinile la frenesia.
L’effetto Larsen che dilania l’inizio del boogie shuffle Go Down mentre Bon tracanna del bourbon, la falsa partenza dei tre brutali, robotici, accordi di Overdose, i droni cazzutissimi di Bad Boy Boogie, la stonesiana Hell Ain't A Bad Place To Be completamente stonata… tutto nel disco è così fottutamente crudo e dirompente: Let There Be Rock è un bullo che spacca le corna a qualsiasi disco punk rock. E se il groove spacca-ossa di Dog Eat Dog (che Van Halen trasformerà in Panama!) e l’osceno riff zeppeliniano dell’autobiografico Whole Lotta Rosie ancora non bastano, allora ecco che arriva l’attaccabrighe Problem Child, recuperato da Dirty Deeds... e scritto dal frontman in onore di Angus.
Prima che tale bomba venga sganciata anche in Europa, la band gira a marzo di quell’anno la Gran Bretagna con i Black Sabbath, i quali se ne pentiranno: perché gli AC/DC tirano giù i tetti e rullano il palco. Così, mentre Ozzy e Bon svuotano i pub, tra Malcolm Young e Geezer Butler scattano i nervi e anche un coltello a serramanico di troppo, come del resto qualche scontro era successo fra Malcolm e la crew dei Deep Purple l’anno prima. È chiaro, avere quei vandali come opening act significa essere poi spazzati via. E non tutti sono disposti a fare un passo indietro.
Gli AC/DC rientrano alla base ma Mark Evans è fuori, lasciando il posto a Cliff Williams, un altro osso duro di Liverpool, ex-Home. Con lui al basso, gli AC/DC sbarcano finalmente sugli immensi territori statunitensi. Al debutto a Los Angeles ci sono 80 persone (e tra essi, gli esterrefatti Gene Simmons, Joe Perry e Iggy Pop): dodici mesi dopo, gli AC/DC apriranno il colossale Day On The Green (con Van Halen, Aerosmith e Pat Travers) davanti agli 80mila dell’Oakland Coliseum di Los Angeles.
POWERAGE, HIGHWAY TO HELL & BRIAN JOHNSON
Appena rimpatriati, gli AC/DC si rinchiudono in studio per varare il 5 maggio 1978 Powerage (per Van Halen, Keith Richards e Joe Perry il loro disco migliore): più variegato e swingante, con un basso brillante (che in via eccezionale suona George Young per i problemi di visto di Cliff Williams) e con classici da urlo come l’esplosivo groove stop&start di Riff Raff. Ma non sfonda.
La pazienza della Atlantic è agli sgoccioli ma ormai la band ha messo a fuoco il sound: i riff mastodontici e i ritornelli da stadio del successivo Highway To Hell (con la produzione di Mutt Lange, guru del pop imposto da Atlantic ai fratellini Young) conquisteranno nel 1979 l’airplay radiofonico degli USA, la patria del R&R. Il poeta di strada, il rocker indistruttibile, Scott non si godrà quasi niente del successo finalmente raggiunto: quel viziaccio di fare le cose sbagliate con le persone sbagliate, gli stroncherà la vita in una gelida notte londinese nel febbraio del 1980, parcheggiato e dimenticato in una Renault 5 come un relitto qualsiasi.
Tale mazzata avrebbe ucciso chiunque. Non il clan degli Young che, una volta arruolato Brian Johnson, escono nel 1980 con il peso massimo Back In Black, addirittura issando il R&R in cima alle hit parade planetarie. E alle loro regole. Perché di regole, non ne conoscono altre: “Ok, vediamo cosa si può fare...” Questo è il mantra di Malcolm Young, la forza trainante degli AC/DC, ogni qualvolta sembra ci si debba arrendere. Spesso capita che i due Young si chiudano da qualche parte per discutere e che uno dei due esca con un occhio pesto seguito dall’altro con magari entrambi gli occhi lividi ma, tracciata la strada, la si percorre all’unisono arando tutto quel che si pone davanti. Un incastro perfetto, spezzato solo dalla scomparsa di Malcolm nel 2017.
INGREDIENTI E SUONO
Gli AC/DC sono semplicità e aggressività, un autentico luna park per i ragazzini che vogliono divertirsi subito con la loro prima chitarra elettrica a tracolla, ma che sono anche un ottimo allenamento per la mano destra in quanto a ritmiche, timing e dinamiche (Shock Me All Night Long), tirando suoni puliti alternando plettro e dita, o per esercitarsi con i bending.
Se Angus è il rock, Malcolm è il roll. Angus saturo, sporco, meno preciso che plettra leggero come se avesse un pennello perché sa che dietro ha il fratello che lo sostiene tirando mazzate micidiali come se impugnasse un martello.
Spesso è Angus a dare il tiro e Malcolm a piazzare i suoi tre accordi fragorosi che reggono la baracca. Malcolm spinge più sulle alte, scolpendo brutalmente i suoi accordi certosini mentre Angus è più selvaggio sulle basse. Il tutto, fornendo quella detonazione enorme di riff epici, definita, brillante e sporca al contempo.
Gli ingredienti di Angus sono pochi, semplici, letali. Una Gibson SG del ‘67 con pickup standard, un Marshall Plexi monocanale tirato a cannone (in studio il fido JMT-45, dal vivo il preferito con quel 1959 SLP da 100 watt e cabinet 1960 AX e BX con quattro altoparlanti Celestion G12M Greenback da 12”) e poi l’asso nella manica: lo Schaffer Vega, il sistema wireless che gli consente di dimenarsi liberamente sul palco, capace di fare da booster tra chitarra e ampli.
Ritmicamente Angus, ove possibile, usa accordi folk amplificati piuttosto che accordi di battuta basati sulla radice. Usa anche barré, ma la stragrande maggioranza delle canzoni degli AC/DC sono nelle tonalità di A, G o E e suonate sui primi tre tasti. Un accordo che è particolarmente caratteristico di Angus è il Dsus2/Gb, il detonatore di Highway To Hell.
Come solista, Angus non ha grandi doti e non è per nulla versatile, come del resto non lo è la musica degli AC/DC, ma pescando a piene mani dal pozzo della pentatonica blues, ha creato una miriade di assoli di chitarra gustosi. E, in quanto ad energia, pare esistere ben poco di paragonabile.
Suo marchio di fabbrica, insieme al bending, è il legato (come nell’immenso lick di Thunderstruck, nato come esercizio di legato e divenuto un tuonante riff in alternate picking!) con il quale aizza le folle smanettando con il volume, mentre i suoi vibrati sono veloci e ampi.
Se Angus si è preso i riflettori indossando i panni dell’eterno scolaro rockettaro e divenendo l’icona della band, Malcolm ha preferito comandare la sala macchine, defilato e in penombra, incatenato al tempo. Malcolm ha rimesso l’accento su ciò che deve avere un chitarrista: un suono distintivo, un groove capace di colpire il basso ventre e un timing da metronomo. In una parola il ritmo.
Granitiche ed essenziali, le ritmiche di Malcolm sono martellate di primo manico che utilizzano accordi aperti e corde vuote scariche di gain, per evitare che la distorsione soffochi la botta clamorosa dei suoi attacchi netti e feroci, scolpiti dall'overdrive del volume, dai suoi semi palm mute minacciosi, dai suoi staccati percussivi, dalla sua plettrata da fabbro in downstroke, aggressiva e accentata come quelle di Pete Townshend e Keith Richards, sferrata su corde appositamente grosse come cavi (Gibson 900Ms-12.56 e plettri Fender extra heavy da 1,21 mm).
Se inevitabilmente il segreto del suo suono deciso e crudo è nella pacca e nel tiro della sua mano destra, una gran merito va anche a “The Beast” (... e una Gretsch ha un attacco più forte e nitido di una SG), sua unica ancella per mezzo secolo (oltre ad una splendida White Falcon del 1959).
Oltre a sverniciare quella Gretsch facendo emergere il top in acero sottostante, Malcolm le ha levato i due pickup, al centro e al manico, per togliere resistenza alle corde e farle vibrare di più (corde che, in quanto decisamente pesanti danno molta più inerzia), oltre che plettrarle senza pietà in corrispondenza del mini humbucker Filter’tron al ponte, per ottenere quel sound metallico e grossissimo nonostante quasi privo di gain.
Il suo cattivissimo crunch, inoltre, è quasi pulito, con un groove pazzesco e un controllo pauroso sulle corde suonate (la base del rock!), considerando che sul palco gli AC/DC usano un muro di ampli con volume a tutta forza.
Attaccando sempre in levare, Malcolm dà un senso di movimento al suono, inoltre la sua Gretsch genera un suono molto ampio e arioso che riempie i suoi magistrali silenzi nei riff degli AC/DC.
E poi, la gestione magistrale della mano destra, dove ogni accordo deve essere scolpito in maniera differente, come nell’obelisco Back In Black o nel fantastico Gone Shooting, manifesto del suo celebre accordo “alla Malcolm Young”. Si tratta di un power chord su tre corde (Sol, Re e La), classicissimo ma per niente ortodosso nella posizione, con un semi-barré (molto doloroso) del mignolo sulle corde di Mi, Si, Sol e Re, con l’indice che preme sulla corda di La con il solito intervallo di un tono dei power chord, mentre il medio fa un muting sulla sesta corda e l’anulare a sostegno al mignolo, pronto al cambio. Una posizione scomoda ma fondamentale per ottenere certe sfumature di colore e che rende ostiche le ritmiche delle cover degli AC/DC.
Malcolm è semplicemente il meridiano di Greenwich del rock: Jailbreak, Overdose, Ain’t No Fun, It’s A Long Way To The Top, Back In Black e Thunderstruck, sono tutte master class del groove.
Ma se c’è un brano che ha reso Malcolm leggenda è Let There Be Rock, il manifesto del suo ritmo solido e del suo Tone nudo e crudo: quel che si è impresso nei timpani di una pletora di chitarristi nel globo, spronandoli a suonare: “Non avevo idea che gli AC/DC fossero così fighi!” – aveva detto allora James Hetfield – “Al Forum ci ero andato con mio fratello che mi indicava Angus dicendo che quel ragazzino che correva su e giù per il palco gli dava sui nervi. Io invece volevo essere proprio come lui!”
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“Oggi tutti sono interessati al rock ma nessuno al roll...” – Keith Richards
“Mi trovavo a lato del palco e pensavo: proprio noi dobbiamo suonare dopo questi figli di pu****a?” – Eddie Van Halen al Day On The Green 1978
“Gli AC/DC hanno ridotto all’osso gli elementi del R&R e non hanno mai abbassato il tiro...” – Joe Perry
“A Cleveland ci hanno spazzato via da quel cazzo di palco. Quella sera Angus è stato incredibile!” –
Gary Moore (Thin Lizzy)
“Tutti dicono che i brani degli AC/DC sono facili... beh, prova a suonarli!” – Scott Ian (Anthrax)
“Stavamo riascoltando una traccia, Malcom arriva, si siede un attimo e dice 'cos'era quel rumore?' E noi: 'che rumore?’ E lui: 'c’era un rumore, fammela riascoltare!' E tutti noi continuavamo a non sentire assolutamente nulla. Separammo via via tutte le tracce fino a quando rimase solo la cassa della batteria e tutto ciò che si riusciva a sentire era un click e mi chiedevo che cazzo fosse. Andammo a levare la pelle della cassa e c'era un piccolo granchio che era rimasto dentro per due giorni mentre Phil [Rudd] l’aveva martellata come un fabbro! Guardammo Malcolm e gli dicemmo 'Come diamine facevi a sentirlo?' – Brian Johnson
“Sono sempre stato più interessato agli accordi, alla melodia, al brano nella sua interezza, piuttosto che a ogni singola parte da suonare. Angus ha sempre recitato il ruolo principale, non si preoccupa degli accordi. Vuole solo fare l'assolo... Suono la chitarra da quando avevo circa 4 anni. Strimpellavo qualche piccolo riff di Elvis o qualcosa del genere. Poi, quando avevo 11 o 12 anni, sono usciti i Beatles e, naturalmente, ho cercato di imparare le loro melodie...” – Malcolm Young
“All’epoca non andavamo mai in studio con qualcosa di più di qualche riff. In realtà, pensavamo che un riff fosse una canzone! In quei giorni suonavamo parecchio in giro ed essendo a corto di materiale nostro, ci divertivamo spesso con Jumpin' Jack Flash inserendoci un po’ di stronzate così da riempire il nostro set di 40 minuti. I riff di Live Wire e di It’s A Long Way To The Top sono venuti fuori da quelle jam.” – Malcolm Young
“Devi colpire la chitarra abbastanza forte e scavare nelle corde per rendere giustizia al ritmo. A volte la penso più come suonare il pianoforte. È tutto quello che mi basta sapere...” – Malcolm Young
“Poco importa con quale produttore abbiamo lavorato. Ho sempre fatto riferimento a Malcom; lo guardavo mentre suonavo un assolo di chitarra, poi lui diceva sì o no [...] Un bel riff? Se ha ritmo aiuta. È importante [...] Ci hanno sempre detto che sul palco siamo potenti. La nostra abilità sta nel mettere questa potenza su disco e renderle giustizia.” – Angus Young
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