ANTHONY JACKSON il basso che pensa come una chitarra
Il nome di Anthony Jackson attraversa decenni di musica, spesso nascosto nei crediti, ma sempre riconoscibile per profondità, precisione e una visione sonora che sposta il baricentro della musica moderna. Da Steely Dan a Chaka Khan, da Al DiMeola a Paul Simon, Anthony Jackson è l’architetto invisibile di centinaia di capitoli che definiscono il suono degli ultimi cinquant’anni.
Dietro quel rigore quasi ascetico c’è una rivoluzione silenziosa: l’idea che il basso possa pensare come una chitarra. Da questa intuizione nasce il basso elettrico a sei corde, uno strumento che cambia per sempre il modo di concepire l’estensione timbrica e armonica del basso.
VISIONE E RIVOLUZIONE
All’inizio degli anni Settanta, Anthony Jackson è già un giovane professionista rispettato nella scena newyorkese. Suona nei club, registra in studio, ma qualcosa lo inquieta. Guarda il suo Fender e si chiede: perché il basso deve avere solo quattro corde? Non è una curiosità...
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estetica: è una riflessione strutturale. Jackson vuole superare i limiti fisici dello strumento per estenderne la voce, per farlo dialogare con la chitarra e il pianoforte sul piano armonico.
Nel 1974 si affida al liutaio Carl Thompson e gli propone di costruire un basso accordato in quarti, dal Si grave al Do acuto: BEADGC. È la nascita del “contrabbasso elettrico”, come lo chiama lui allora. Un anno dopo lo strumento è realtà: una tastiera ampia, corde ravvicinate, un registro esteso che gli permette di esplorare territori melodici fino ad allora proibiti ai bassisti.
Negli anni Ottanta, l’incontro con Fodera Guitars trasforma quell’esperimento in un progetto concreto. Vinny Fodera e Joey Lauricella collaborano con Jackson per perfezionare un basso senza compromessi: costruzione single-cut, legni selezionati, elettronica passiva e una risposta dinamica trasparente.
Nel 1984 il primo modello definitivo lascia il laboratorio di Brooklyn e diventa un simbolo. Non è solo uno strumento: è una dichiarazione di indipendenza del basso elettrico. Da quel momento la filosofia di Jackson influenza costruttori, musicisti e produttori. La logica del “range esteso” entra nel dna della musica moderna e prepara il terreno per tutto ciò che, decenni dopo, sarà definito extended-range: dai sei corde contemporanei alle chitarre a sette e otto corde.
SESSION MAN DI LUSSO
Mentre l’industria discografica vive la sua età d’oro, Anthony Jackson è dappertutto. Le major lo chiamano per la precisione chirurgica del suo timing e la lucidità armonica con cui costruisce le parti.
Con gli Steely Dan giunge al loro “suono perfetto”: ogni nota è scelta, calibrata, scolpita. Con Quincy Jones e Arif Mardin, Jackson dimostra che il basso può essere un centro di gravità armonica, non solo ritmica.
Nel 1973 registra For The Love Of Money degli O’Jays. Usa il plettro, un phaser Mutron e un’idea semplice ma rivoluzionaria: creare un groove che cammini da solo, senza bisogno di batteria o accordi. Quel riff circolare diventa uno dei più celebri della storia del basso. È talmente forte da valergli il raro riconoscimento di co-autore.
Da lì in avanti, Jackson diventa sinonimo di perfezione. Lo chiamano per sessioni pop, jazz, R&B e persino disco. Lavora con Chaka Khan, Luther Vandross, Donald Fagen, Paul Simon, Madonna, Diana Ross. Ogni volta la sua impronta è inconfondibile: linee nitide, profondità sonora, rigore assoluto. Per lui ogni take è un atto architettonico. Passa ore a studiare il posizionamento delle note, la relazione tra le frequenze, la densità timbrica. Il suo basso non accompagna: struttura. E ogni produttore che lavora con lui sa di avere davanti un musicista che ragiona in termini di equilibrio sonoro più che di virtuosismo.
GLI ALBUM CHE LO CONSACRANO
Ci sono dischi in cui il nome di Anthony Jackson diventa sinonimo di autorevolezza. Elegant Gypsy di Al DiMeola (1977) è uno di questi. La fusione tra le sue linee di basso e le chitarre di DiMeola e Jan Hammer apre una nuova frontiera della musica elettrica: groove e armonia dialogano senza gerarchie.
In Gaucho degli Steely Dan (1980) la presenza di Anthony Jackson è discreta ma decisiva: incastra le note come ingranaggi di precisione svizzera, sostenendo l’architettura complessa di Becker e Fagen con un’eleganza quasi scientifica.
Nel 1982 suona in The Nightfly di Donald Fagen: il basso di I.G.Y. e Green Flower Street è un manuale di equilibrio tra nitidezza e swing.
Con Chaka Khan incide Move Me No Mountain e, per raggiungere il risultato che ha in mente, Jackson sperimenta accordature alternative, abbassa la tensione delle corde, registra più versioni e rifinisce ogni take come fosse una scultura. Nathan East dirà anni dopo che quella linea dovrebbe essere “materia obbligatoria per chiunque imbracci un basso...”
Nei dischi di Michel Camilo (Why Not?, Suntan) e Michel Petrucciani (Playground) dimostra che il suo fraseggio non è mai subordinato: è un dialogo costante con la melodia.
Negli anni Duemila Anthony Jackson torna sotto i riflettori grazie al Trio Project di Hiromi Uehara: negli album Voice, Move e Alive il suo suono è più maturo, essenziale, quasi ascetico. Ogni nota del suo basso pesa, respira, racconta.
TECNICA, SOUND E FILOSOFIA
Per capire Anthony Jackson bisogna guardare alla sua filosofia di pensiero. Non accetta compromessi, non si affida al caso. Ogni dettaglio del suo suono è frutto di una scelta consapevole.
Preferisce corde flat-wound o realizzate su misura per la sua accordatura estesa. Suona sempre con il plettro, vicino al ponte, per ottenere un attacco definito ma controllato. Evita i compressori, ama i preamp trasparenti (Demeter, Avalon) e usa casse progettate per riprodurre l’intero spettro sonoro senza aggiungere colori. Quando parla di Tone, usa parole come “neutralità”, “intelligibilità”, “ordine armonico”.
Jackson non cerca il suono più grosso, ma quello più concreto. Ogni linea nasce da una logica armonica, mai da un gesto istintivo. La sua precisione maniacale diventa leggendaria: in studio può registrare decine di take solo per controllare la coerenza dell’intonazione o la simmetria del tocco. Non è ossessione sterile, è rispetto totale per la musica.
Quando gli chiedono se considera sé stesso un innovatore, risponde che preferisce definirsi “un musicista che cerca l’evidenza delle cose”. In un’epoca in cui molti bassisti si esprimono attraverso la quantità di note, Jackson mostra la potenza della sottrazione.
I CHITARRISTI E IL DIALOGO ARMONICO
Il rapporto tra Anthony Jackson e il mondo della chitarra è profondo. Con Al DiMeola costruisce un dialogo che diventa paradigma: il basso non segue la chitarra, ma la completa. Le linee si intrecciano, si inseguono, si sfidano.
Con Pat Metheny condivide la stessa architettura: armonie sospese, interplay costante, senso dello spazio. Con Steve Khan raggiunge uno dei vertici della conversazione armonica tra basso e chitarra. In brani come Daily Village o Blades i due creano un tessuto polifonico che anticipa molte sperimentazioni moderne.
La logica di Jackson – estensione timbrica, accordature in quarti, pensiero armonico verticale – influenza anche il mondo della chitarra elettrica. Le moderne extended-range guitars devono molto a quella stessa idea di “strumento totale” che lui formula negli anni Settanta. Quando chitarristi come Tosin Abasi, Charlie Hunter o Tim Miller parlano di estendere la chitarra nel registro grave, riprendono inconsciamente il suo principio: allargare il vocabolario senza perdere la coerenza del linguaggio. Nel suo modo di suonare c’è una lezione per i chitarristi: il groove come architettura, la precisione come espressione, la disciplina come forma di libertà.
L’EREDITÀ E L’INFLUENZA
L’impatto di Anthony Jackson sulla musica moderna è enorme. Non solo per il numero di dischi o per la notorietà, ma per la profondità della sua influenza. Nathan East racconta di aver studiato le sue linee nota per nota per comprendere il concetto di “respiro ritmico”. Marcus Miller lo cita come esempio di rigore estetico; Victor Wooten ne riconosce il pensiero armonico come fondamento di ogni bassista contemporaneo.
Anche la liuteria cambia grazie a Anthony Jackson: il progetto del suo basso elettrico a sei corde apre la strada a Fodera, Alembic, Ken Smith, MTD e molti altri costruttori che prendono a svilupparlo. Ma il contributo di Jackson va oltre la tecnica e la costruzione del basso elettrico: ridefinisce la figura del musicista da studio; non più un solo e abile sessionman, ma un designer del suono, un interprete che pensa come un produttore. Il suo lascito vive in ogni musicista che si avvicina al basso come a un sistema complesso, dove ogni frequenza ha una funzione, ogni intervallo racconta qualcosa. E continua anche nella chitarra: chi oggi esplora l’accordatura, la polifonia, la precisione ritmica, in qualche modo cammina sul sentiero tracciato da Anthony Jackson.
Nel corso della sua vita, Anthony Jackson non vuole essere un uomo da copertina. Parla poco, raramente concede interviste, non ama i riflettori. Ma ogni volta che mette le mani sul suo basso, il suono sale in cattedra e ogni produzione cambia prospettiva.
La sua scomparsa non chiude una storia: la proietta in avanti. Perché la sua idea di basso – logico, armonico, indipendente – continua a ispirare non soltanto chi suona un quattro, un cinque o un sei corde, ma chiunque creda che la musica sia un pensiero e la sua espressione.
In un’epoca in cui tutto tende alla velocità e alla saturazione, Anthony Jackson insegna il valore della misura. E nel silenzio che segue ogni nota, la sua voce continua a risuonare.
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