TED NUGENT Stranglehold

di Eugenio Palermo
01 settembre 2025
All’alba dell’heavy metal, quando tutto lo stardom del rock si arma di una Stratocaster e di un Marshall, un cacciatore di Detroit cerca la sua vendetta con una Gibson Byrdland hollow-body e otto Fender Twin a cannone, con le mani a imprigionare nelle melodie mostruosi feedback capaci di spazzare via qualunque essere umano a tiro, entrando sul palco aggrappato a una liana con indosso perizoma e pelli di animali, oppure a cavallo di un bisonte, con un copricapo dei Nativi indiani sulla testa: Ted Nugent, il Motorcity Madman della chitarra hard rock!

Nel 1975 la carriera degli Aerosmith viene sparata nello spazio dall’uscita dell’eccitante Toys In The Attic: la rock band di Boston è il nome caldo dello show business e il tour statunitense si preannuncia trionfale. Quelle vecchie volpi dei loro manager, Leber & Krebs, colgono la palla al balzo e piazzano in apertura dei loro protetti il loro nuovo acquisto, un selvatico chitarrista di Detroit che ha appena pubblicato il suo primo album solista omonimo: Ted Nugent.
Il pubblico va subito fuori di testa per i suoi riff oltraggiosi e le sue buffonate da circo; sono i tempi dei fuochi d’artificio dei Kiss, del grandguignol di Alice...

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Cooper e dello scolaretto iperattivo Angus Young, ma... chi era mai entrato in perizoma tigrato con la coda di procione attaccata, aggrappato a una liana come Tarzan, con i baffi a manubrio e la zazzera da hippie, scoccando frecce infuocate da una parte all’altra dello stage, in un inferno di feedback che spaccano i timpani? Nessuno.

In realtà Ted Nugent non è un pivello ma già un pregiudicato del rock: reduce della Summer Of Love, solcata con gli eccentrici Amboy Dukes e il loro amalgama da capogiro di blues, garage, psichedelia e persino art rock, Nugent li ha rottamati per mettersi in proprio e raggiungere finalmente la vetta. E sarà così. In quel 1975 Ted Nugent si prenderà l’America, scrivendo il suo nome nella storia del rock con la grandezza dei caratteri connotata dagli oltre seimila concerti invasati e 40 milioni di album venduti e, soprattutto, dalle tre generazioni di rocker che ne capta l’ispirazione (Van Halen, Hetfield, Mustaine, Lemmy, Slash, Adam Jones, Dimebag Darrell, Black Flag, Minor Threat...). Sbruffone, egocentrico, iperattivo, divisivo, Ted Nugent suona coerentemente a come vive: senza compromessi, obbedendo solo al suo selvaggio spirito rock e fottendosene delle conseguenze.

Nugent è il primo vero guitar hero dell’heavy metal americano: prendendo per le corna il sound violento degli anni ‘70 e cavalcandolo senza sella e speroni, lo piega alla dittatura dei suoi watt fuorilegge e dei suoi riff esaltati. Una supernova spentasi dopo il naufragio della sua band stellare e l’avvento di Van Halen e dei suoi cloni, che pian piano ha sostituito le sue devastanti esondazioni chitarristiche con improponibili sproloqui da redneck fanatico della caccia, incattivito dalla vecchiaia, violentissimo megafono rock della retorica M.A.G.A. (Make Great America Again), feroce nell’attaccare le droghe e chi ne fa uso, come nel difendere col sangue il Secondo Emendamento (che sancisce il diritto dei cittadini statunitensi di detenere e portare armi) e i dogmi del rock n roll.

Cacciatore fieramente iscritto alla N.R.A. (l’organizzazione statunitense che sostiene il libero possesso delle armi da fuoco), Ted Nugent è risorto a cavallo degli anni 2000 con l’acclamato Spirit Of The Wild (1995) e come star della tv, fra reality ambientati nel suo ranch nel Michigan e programmi e libri su come sopravvivere cacciando con l’arco. Dio, fucili e chitarre, collezionati in egual appassionata misura. E chissà se non siano state le sue truculente invettive contro tutto ciò che non è W.A.S.P. (White Anglo Saxon Protestant) a tagliare le gambe al suo ingresso nella Hall Of Fame Of Rock N Roll ancora precluso...

Ted Nugent è un pioniere della chitarra dura, dalla quale estorce power chord come fucilate, domando feedback imbizzarriti come un ranchero, pavimentando la strada (percorsa poi velocemente dalla generazione dei metallari degli ’80) con un bitume ad alto tasso di adrenalina, in cui si annidano il garage rock bastardo di Detroit, l’eccitante pathos Motown, il rhythm and blues fangoso dei pionieri Muddy Waters e Lightnin Hopkins e il rock n roll ossesso di Bo Diddley, Chuck Berry e Little Richard. Una miscela mitragliata da un performer che non si pone limiti, un cavernicolo che alterna l’arco e la chitarra sferragliando per il palco, circondato da impressionanti muri di ampli da cui salta e cava il feedback più contundente. Un inaudito pandemonio elettrico scatenato da una chitarra a dir poco non convenzionale, ovvero quella Gibson Byrdland divenuta il marchio di fabbrica di Nugent nonostante sia stata concepita per il jazz; nonostante in quel momento tutti corrono a dotarsi della Stratocaster più letale.

MOTOR CITY DETROIT
L’epopea inizia a Redmond, sobborgo della Motor City Detroit, nel Michigan statunitense, patria della Gibson e della Ford, cardine di quel Midwest metallurgico (la cosiddetta Rust-Belt) dove batte l’anima dell’America più verace e fiera, così lontana dalle avanguardie delle metropoli costiere. Esattamente a Redmond nasce il 13 dicembre del 1948 Theodore Nugent, secondo di quattro figli di Warren, un ex sergente dell’esercito ora tuta blu, e sua moglie Marion. A casa Nugent l’educazione è rigida e cattolica, la cultura del lavoro tipica degli States anni ‘50 (quel “lavora duro e avrai successo” che ispirerà l’inno di Ted Workin Hard, Playing Hard) inculcata rigorosamente, mentre fuori l’America sta per essere scioccata dall’avvento del rock n roll.

Ted Nugent inizia a suonare la chitarra a sei anni, dopo che sua zia, hostess di una compagnia aerea, gli spedisce una chitarra acustica abbandonata su un volo e non più reclamata. Quel grosso strumento di legno con le corde da pizzicare, lo rapisce subito. Sono gli anni di Chuck Berry, Billy Haley, Little Richard, Elvis Presley, ma anche della fondazione a Detroit della Motown Records, la Mecca del R&B.

Le lezioni di Joe Podorsek alla Capitol School Of Music per una solida impostazione tecnica/teorica e poi l’approccio a boogie-woogie e honky-tonk: all’età di dodici anni, Ted Nugent si butta nella mischia con The Lourdes, influenzati dagli Yardbirds. Ma prima ci vuole un ferro adeguato. Qualche lavoretto per racimolare un po' di soldi vendendo lombrichi, lavando auto, rastrellando prati e spalando neve, e finalmente si paga una Fender Duo-Sonic nuova di zecca, quella che dal 1959 al 1965 sarà la sua ascia.
All’epoca Nugent adora i Ventures e la Fender Duo-Sonic è una chitarra fatta per studiare; semplice, poco costosa, ma è dotata di due single coil che sprigionano il leggendario Fender Tone e di un manico con scala corta concepito per praticare con agilità. Ted diventa una macchina da guerra e la sua benzina è pesante: James Brown, Funky Brothers, Wayne Cochran, Bo Diddley, Keith Richards, Lonnie Mack, Duane Eddy.

Nel 1965 The Lourdes vincono la Battle Of The Bands e si accaparrano l’occasione di aprire a giugno per The Beau Brummels e per The Supremes nella famosa Cobo Hall di Detroit, un colpaccio che li porta addirittura ad aprire la data degli Stones nella Motor City.
Ma in autunno Warren Nugent, il padre di Ted, viene trasferito dalla H.K. Porter Co. a fare locomotive a Chicago, nell’Illinois, e addio Lourdes. Ted mastica amaro ma prima che la famiglia si trasferisca un’altra grossa occasione arriva: The Lourdes aprono per Billy Lee & The Rivieras, al Walled Lake Casino, fuori Detroit.

I Rivieras, originari dell’Indiana, sono una delle prime incarnazioni di Mitch Ryder e dei Detroit Wheels di Jimmy McCarty e quest’ultimo sfodera sul palco una Gibson Byrdland collegata a un Fender Twin Reverb nero. Per Ted è un’esplosione di sole.
Introdotta nel 1955, la Byrdland è la hollow body che Gibson denomina in tal modo miscelando i cognomi dei due noti chitarristi country, Billy Byrd e Hank Garland, per cui è stata concepita; non è certo l’arma per un assalto rock n roll [di contro, il Fender Twin Reverb Amp e i suoi 85 watt di perfezione valvolare, è un punto di riferimento per tutti, dai musicisti di jazz e blues puliti, a quelli del rock più pesante] ma per Ted suona come una dozzina di chitarre sputafuoco messe insieme, con il suono più pieno, ricco e dinamico che abbia mai potuto immaginare. La vuole. Ma è ancora fuori budget per le sue tasche.

In una scena rock sempre più potente e hard è tempo di passare a calibri più grossi: la Duo-Sonic collegata al piccolo Fender Bassman Amp da 45 watt è inadeguata. Nugent vuole picchiare duro, quindi la scambia con una Epiphone Casino Archtop (Vintage Sunburst), quella dei Beatles, degli Stones e dei Kinks. E’ una hollow body la Epiphone Casino, ha il top arcuato, due P-90 e un ponte tune-o-matic, dunque, è decisamente diversa dalla Fender Duo-Sonic che, peraltro, è una solid body: in tutti i casi, è con la Epiphone tra le mani che Nugent riparte con il suo nuovo bolide: gli Amboy Dukes.

AMBOY DUKES
Sebbene la Epiphone Casino sia il passo nella giusta direzione, non porta Nugent dove vuole essere e così, quando nel 1966 sente di una Byrdland Blonde alla Roselle School Of Music, si fionda: ottocento dollari è come un milione di dollari, ma Mr Gillman crede in quel teppista sbruffone e accetta di scambiarla con la sua Casino, con l’aggiunta di 100 dollari e di rate mensili di altrettanti 100 dollari l’una.

Se la maggior parte dei chitarristi hard rock evita come la peste le chitarre hollow body a causa del feedback che innescano in prossimità degli amplificatori, Nugent fa suo proprio quel ringhio bestiale. La Byrdland produce il suono sottile e sofisticato ricercato dal jazz, ma per Ted è una delle chitarre più versatili che abbia mai sentito suonare, quindi, adatta a tirare fuori il suono che ha nella testa. Ispirato dal boogie di Billy Gibbons e dai fragori di Jimi Hendrix e Jeff Beck, Nugent lavora duro per essere la rappresaglia americana alla British Invasion di Cream e Led Zeppelin e, da artigiano qual è, smanetta interruttori e volumi per cavarne fuori potenzialità e obbedienza. Ma la Byrdland ha il suo carattere. È una chitarra jazz col corpo scavato e se ti avvicini a un amplificatore innesca il feedback anche a un volume basso: Nugent lo alza allora al massimo e incorpora quegli squarci nel suo sound, sempre più veloce, volgare e implacabile da sciogliere un bazooka.

Terminato il liceo, Nugent torna a Detroit con gli Amboy Dukes, dove firmano con la Mainstream Records e registrano l’omonimo album di debutto (1967). Registrato in una sola notte con un quattro tracce, gli Amoboy Duke – Ted Nugent (chitarra lead), Steve Farmer (chitarra ritmica), John J.B. Drake (voce), Rick Lober (piano/organo), Bill White (basso), Dave Palmer (batteria) – inseriscono nell’album brani inediti, oltre che vivaci versioni di brani noti, come Baby Please Don't Go (di Joe Williams), I Feel Free (di Jack Bruce, Pete Brown) e It’s Not True (di Pete Townshend), per una tracklist che mette insieme psichedelia, hard rock e garage rock.

Nell’aprile 1968 gli Amboy Dukes e una lineup che vede il cambio di bassista, batterista e tastierista, pubblicano il loro album più noto, Journey To The Center Of The Mind. La Gibson Byrdland di Nugent sciorina suoni distintivi mentre l’album, spericolatamente eclettico,
abbina inni da Era dell'Acquario (Ivory Castles, I'll Prove I'm Right), al blues muscolare (Mississippi Murder), al garage rock ruvido (Flight Of The Byrd, l’ode di Nugent alla sua amata Byrdland) e all’hard rock (Dr. Slingshot), mentre l’assalto psichedelico della title track raggiunge il numero 8 di Billboard.

Il successivo Migration (1969) è zeppo di spunti interessanti ma palesa la spaccatura tra la chitarra heavy rock di Nugent ispirata a Hendrix (Prodigal Man, Good Natured Emma) e gli sforzi psichedelici del socio Steve Farmer (For His Namesake, Shades Of Green And Grey). Una dicotomia anche dello stile di vita. Pur essendo un nome di culto del movimento hippie, Nugent è fuori da quella cultura lisergica. Lui è svalvolato di suo. La band inevitabilmente perde i pezzi diventando una creatura di Ted finanche nel nome. E’ così che ascoltare gli album di Ted Nugent’s Amboy Dukes è un combattimento con gli altoparlanti ma il loro avveniristico proto-heavy metal folk allucinogeno non sfonda, rimbalzando fra etichette e cambi di lineup continui, nonostante una dozzina di album prodotti in dieci anni ad altissima intensità.

Nugent le sta provando tutte per emergere. Poco prima dello scioglimento dei Dukes, inizia a inscenare i celebri duelli chitarristici con metallari veterani come Frank Marino dei Mahogany Rush, Wayne Kramer degli MC5 e Mike Pinera degli Iron Butterfly e dei Blues Image; sono tamarrate vere ma riempiono i palazzetti e alimentano ulteriormente l’immagine di Nugent, condottiero folle e selvatico.

TED NUGENT & THE AMBOY DUKES
Nel 1974 la DiscReet Records di Frank Zappa mette sotto contratto Ted Nugent & The Amboy Dukes e Nugent sgancia due siluri: Call Of The Wild e, soprattutto Tooth, Fang & Claw, il suo possente e fragoroso inno con il feedback di Hibernation e il palm mute di Great White Buffalo che dal vivo diventano leggenda. Dopodiché, manda tutti affanculo, si isola sulle montagne del Colorado a cacciare alci per tre mesi, per poi tornare alla civiltà carico come una mina e deciso a dichiarare guerra al mondo.

Fra gli ossi duri che assolda c’è ancora quel drago di Rob Grange col suo Fender P-Bass del 1962 (al quale ha aggiunto un pickup del Jazz pre-CBS) in legno di frassino, tutto secco, vecchio e spolpato delle finiture, che è stato l’arma segreta che ha reso gigantesco il sound dei due precedenti album di Nugent. I piatti rovesciati e i ritmi bolero del batterista Cliff Davies completano la sezione ritmica, mentre il maestoso Derek St. Holmes è al microfono, scelto anche perché è un asso con la sua Les Paul e renderà ancora più assassino il live sound dei Ted Nugent & The Amboy Dukes. Il livello eccezionale dei musicisti coinvolti è già la profezia della loro rovina: Ted non concepisce il concetto di band e i tre non si considerano il semplice supporto.

STRANGLEHOLD
Nel 1975, archiviato il nome Ted Nugent & The Amboy Dukes, la Epic (allora la stessa label degli Aerosmith), mette sotto contratto il solo Nugent. Ora Ted può finalmente liberare il suo urlo R&R, crudo, diretto, semplice e sessista, pesante e veloce. Meno cambi di accordi rispetto ad Alice Cooper e più cambi di accordi rispetto ai Black Sabbath, nessun intellettualismo, solo palle al titanio e un volume che stordisce.

Registrato in gran parte in presa diretta da Tom Werman ai Sound Pit Studios di Atlanta, Ted Nugent esce ad aprile del 1975 con un sound dalla potenza stordente e una copertina che sbatte subito in faccia la frenesia elettrica racchiusa nei suoi solchi: l’imponente Gibson Byrdland imbracciata da un capellone in trance rock.

L’incipit è la titletrack, la vendetta di Ted: il suo debutto solista è il suo picco mai più raggiunto. Cantato da un St. Holmes immenso, Stranglehold (la morsa) è un indelebile ed epico inno alla potenza della chitarra rock, la tracotante esibizione dei muscoli della sua Byrdland e dei suoi Fender tirati per il collo (mentre il socio Grange, ancora accanto a Nugent, si attacca a un Ampeg B-18 valvolare) e di come soltanto lui sia capace di domarne la furia.
Un impressionante Leviatano che si snoda ipnotico avvolgendo tutto e tutti nelle sue possenti spire, aperto da un mastodontico riff da Easy Rider o da wrestling-show [non a caso Ted frequentava malfamate band di biker nei ‘60 mentre il brano verrà utilizzato dalla leggenda del wrestling, Kevin Von Erich] squarciato da un palm mute feroce che azzanna sedicesimi e trentaduesimi frustati con spietato timing e spezzato da double-stop e pull-off assassini.

Stranglehold è il saggio dell’eccezionale senso ritmico di Nugent e paesaggio sonoro di uno dei più celebri assoli della storia del rock, registrato in una unica take e autentico brano-nel-brano, culminante con quei delay genialmente suggeriti da Tom Werman [produttore]. Stranglehold è anche la sintesi dell’attitudine di Nugent che lancia granate contro tutte le regole dello show business giocandosi la prima fiche della sua carriera da solista, aprendo con una jam di quattro accordi da 8:22 minuti senza ritornello e con lo storico e audace assolo in Fa diesis/settima minore e l’acquoso MXR Phase 90 di Rob Grange, il quale ha l’idea del phase bass nelle bevute al Ball Room di Atlanta con Wizard (bassista dei Mother's Finest) che in quei giorni sta componendo proprio con un phaser, mostrando il dito medio ai discografici che gli dicevano “che roba così non si poteva incidere...”
Ce n’è già abbastanza per chiudere tutto. E invece il caricatore è ancora pieno. Gli hammer-on e i double-stop nervosissimi di Sturmtruppen preannunciano già gli AC/DC, con quel power-stack da paura e il drumming di Davies che si prendono la scena bombardando a tappeto per supportare lo showcase nevrastenico del vibrato di Nugent.

Hey Baby è interamente di St. Holmes, un boogie sudista alla Skynyrd con tanto di organo fornito dall'ospite Steve McRay ed un Nugent che non fa sconti a nessuno; è il gustoso antipasto alla storica tripletta che sta per arrivare: Just What The Doctor Ordered, Snakeskin Cowboys e Motor City Madhouse.

Just What The Doctor Ordered mette in chiaro come Ted Nugent abbia venduto la sua anima al R&R: costruito su un riff à-la George Harrison sotto steroidi, il brano si lancia poi a rotta di collo fra i power chord deflagranti di Nugent e l’estensione regale di St. Holmes, fino a giungere all’assolo tuonante che incenerisce gli altoparlanti.
Snakeskin Cowboys manda bellamente a quel paese il manager del Ball Room per tutte le volte che ha osato levare dal palco Nugent: parte sabbathiana che poi rolla irrefrenabile come gli Stones, con il saggio di Rob Grange che stavolta imbraccia il suo Hagstrom a otto corde. E quando i timpani son lì a sventolare bandiera bianca, arriva il super inno Motor City Madhouse a spianare le ossa. Uno swing/boogie lanciato a folle velocità dalla doppia cassa di Cliff Davies e dal bending feroce e invasato di Ted: un proiettile che pare incarnare lo spirito caotico ed energico della metropoli delle auto, ed un Nugent che mitraglia lick gustosi, surfa tra feedback imbufaliti e schiaffeggia una ritmica epilettica. Gli ZZ Top sotto anfetamine che si tuffano in una rissa fra MC5 e Funk Brothers: 4:30 minuti che colmano definitivamente il divario fra l’anima funky e quella garage di Detroit.

Il disco – Ted Nugent – provoca un immediato boato. La promozione colossale e un tour massacrante insieme ad Aerosmith e Lynyrd Skynyrd, porta Nugent anche ad Ovest del Mississippi, dove praticamente non lo conosce nessuno e il pubblico pensa che St. Holmes sia Nugent e viceversa! Nugent non solo spinge al limite il suo modo di suonare la chitarra, ma porta sul palco anche le sue buffonate, dimostrandosi ogni sera come il pazzo più pazzo dai tempi di Jerry Lee Lewis. Se i rivali abbondano in borchie e trucco, Ted è come Tarzan: alza i volumi fino a rompere le palle di vetro della scenografia (“If it’s too loud, you’re too old!” è il suo motto del resto...) e si guadagna una sfilza di soprannomi: Uncle Ted, Motor City Madman e Liana Wildman.

Ma Ted non è Angus Young che finito lo show si leva la divisa dello scolaretto e si prende il té verde sul divano: The Nuge, posata la sua Byrdland, prende l’arco e si caccia la cena nei 170 ettari del suo ranch Sunrize Acres nel Michigan. Chiedere per credere! Agli Aerosmith, ad esempio, che se lo vedono salire sul palco all’ultimo secondo, appena sbarcato da un safari in Kenya, e poi far venire giù il tetto e sbriciolare i muri, e mostrare quindi a un attonito Joe Perry, il fazzoletto artigliato dal leone cacciato il giorno prima. [Negli ‘80 Tyler e Perry, ospitati nella riserva di Nugent, lo vedranno sbalorditi in azione, arco e frecce come un indiano, a caccia di cervi e grizzly...] Nessuna sostanza, nessuna bottiglia, solo l’inesauribile adrenalina del R&R e galloni di latte e cioccolato per ricaricare le pile nel dopo-show con groupie e fan ansiosi fuori dal camerino.
La dirompenza selvaggia dei suoi live stravolge non solo l’audience ma anche gli stessi brani: il Ted Nugent Double Live Gonzo del 1978 (il doppio dal vivo) ne renderà giustizia pur segnando il capitolo finale della fase aurea della sua carriera. Il declino renderà più veloce l’ascesa dei Van Halen come nuovo capobranco dell’hard rock yankee.

Grange e St. Holmes infatti mollano, sfiniti dall’ego ipertrofico di un Nugent che non tollera di dividere la scena con altri. E la torta. Infatti, mentre Ted colleziona dischi d’oro e cifre a vari zeri sul conto in banca, i tre compari restano sempre a 175 dollari a settimana, pur se co-autori di tutti i brani. Nugent capirà sulla sua pelle che non è così: solo tre anni insieme ma da numeri uno.

CATCH SCRATCH FEVER
Il devastante Free For All, 1976 (occhio: il funky fragoroso della title track picchia duro sotto la cintura...) è degno successore del debutto spartiacque, con l’allora sconosciuto Meat Loaf al microfono che si alterna al riottoso Derek St. Holmes (e magistrale sull’avvelenato Writing On The Wall, dove la Gibson Byrdland è un serpente a sonagli). Ma è nel 1977 che l’uragano Nugent raggiunge la sua massima velocità. Cat Scratch Fever.
E’ il cratere più grande aperto dalla sua Byrdland, nonostante la sua apparente semplicità: il Bolero di Beck nutre lo spettacolare Homebound, mentre il groove à-la Diddley della Les Paul di St. Holmes fa decollare Live It Up, e l’irresistibile funk della title track da lui cantata, irrompe nell’oceano delle radio americane diventando il brano più celebre dell’istrionico cacciatore del Michigan. Nugent conquista l’America diventando sinonimo della Gibson Byrdland come Hendrix lo è della Stratocaster o Page della Les Paul. L’utilizzo di una hollow body con il top arcuato e il body sottile dentro i territori dell’hard rock, sconcerta.

THE GOD OF TONE
La Gibson Byrdland del 1969 che Nugent imbraccia agli esordi, è una hollow body con il corpo sottile in acero, due buche a effe sul top arcuato, singola mancante di tipo Florentine 17” (appuntita), manico in acero fiammato, segnatasti a blocco e scala ridotta di 23,5”. Ponte Gibson Tune-o-matic con basetta in palissandro e finitura dorata come le meccaniche. L’elettronica si compone di una coppia di humbucker Gibson PAF (7,14 K al ponte e 7,89 K al manico), dello switch per la selezione e dei controlli di Volume e Tono.

Nugent sfrutta la facilità della Byrdland ad innescare il feedback e diviene un vero maestro nel posizionarsi strategicamente verso gli amplificatori per ottenere quello di cui necessitano le sue performance. Nelle parole del suo guitar tech: “Ted è così bravo a controllare il feedback, che gli bastano pochi minuti, nel soundcheck, per capire come reagirà la sua chitarra da diverse parti del palco...”
Considerato The God Of Tone, Nugent preferisce plasmare il suo suono con chitarra e amplificatori, dunque, è piuttosto scarno il comparto dei pedali a cui si affida:
Boss CH-1 Super Chorus e Boss DD-3 Digital Delay, Dunlop Cry Baby Wah e MXR Phase 90.

Dagli esordi con il Fender Bassman Amp, man mano che gli show si spostano in ambienti di maggiori dimensioni, Nugent passa ai Fender Twin Reverb, arrivando ad allinearne ben otto, collegati a cabinet Dual Showman 2×15” dotati di speaker Electro-Voice SRO.
Dal 1977 al 1982, quando Nugent diviene uno dei nomi più popolari negli States, passa ai Super Twin Reverb 2x12” con potenza di 180 watt, collegati a sei cabinet Fender Dual Showman 2x15”, impilati a semicerchio, per un volume esagerato... ne sanno qualcosa i timpani dei 350mila del California Jam del 1978!
Tale brutalità gli costa l’udito dell'orecchio sinistro e, per preservare il destro, dalla fine degli ‘80 Nugent ricorre a un impianto di amplificazione meno devastante, affidandosi ai Peavey da 120 watt che debuttano nel suo periodo con i Damn Yankees, poi alla testata valvolare 5150 (in origine progettata per Van Halen) e alla successiva 6505 MH.
Attualmente Nugent si affida a testate Kustom Quad 100 HD e cabinet DFX 2×12”, mescolati ai suoi Peavey. [Curiosità – Nugent ha utilizzato in studio anche un amplificatore Gibson Bell 15RV e per Cat Scratch Fever un Fender Deluxe Brownface 6G3 (20W 1x12”) del 1962 che tanto ama per l’overdrive e la gamma delle medie ringhiante]

Ted Nugent attribuisce gran parte del suo suono ai cavi. Evitando gli apparati wireless, collega la chitarra agli amplificatori con tradizionali cavi di qualità, affinché possano garantirgli la costanza e solidità del segnale.

Un arsenale di lick pentatonici, rapaci e memorabili, sono alla base dell’originale stile di Ted Nugent: il re dei killer-riff in A, infatti, scivola fra i power chord come i califfi del funk targato Motown, con una mano destra eccezionale nel lavoro ritmico, unita alla maestria del saper suonare delicati passaggi a 110 Db senza un filo di feedback, stando a un metro e mezzo dagli amplificatori. ll resto, sono quelle tonnellate di egocentrica, sfrontata e iperattiva attitudine R&R ad alto numero di ottani, capace di incendiare le arene americane.
Migliori di The Nuge ce ne sono tanti, ma nessuno ha mai cavalcato una hollow body nei territori dell’hard rock... magari a dorso di un bisonte!


Le Byrdland di Ted Nugent
La popolarità di Ted Nugent è strettamente legata alla Gibson Byrdland; sono 31 gli esemplari che passano nelle sue mani nel corso del tempo, tra cui le più note indicate qui di seguito.

1966 Gibson Byrdland Blond – Ted Nugent la acquista nel 1966 ed è la chitarra principale con cui registra alcuni tra i suoi successi, inclusi Stranglehold e Cat Scratch Fever.

1961-1964 Gibson Byrdland Ebony – Esemplare con la tastiera in ebano, Nugent ha affermato che è stata costruita nel 1964, mentre il suo guitar tech sostiene nel 1961. Dopo anni di utilizzo sul palco i pickup sono andati distrutti e sostituiti con due Gibson Burstbucker. Si dice che sia la chitarra prediletta da Nugent assieme alla 1966.

Gibson Byrdland Alpine – Si tratta di una Byrdland nella finitura Bianco Alpino, con il nome del chitarrista, dorato, inciso sulla spalla della chitarra. Nel brano Great White Buffalo, Nugent la utilizzava indossando un copricapo dei Nativi americani.

Gibson Les Paul Stars and Stripes Custom – Non è un mistero che Ted Nugent sia un orgoglioso cittadino statunitense e che la sua Les Paul Custom con la bandiera a stelle e strisce appaia sul palco dal 2008 quasi più che la sua leggendaria Byrdland! La chitarra ha un manico più piccolo della tradizionale Les Paul, per agevolare le mani piccole di Nugent.

1958/1959 Gibson Les Paul – A cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, Ted Nugent ha portato spesso sul palco le due Les Paul del 1958 e 1959 in finitura Sunburst: due chitarre vintage davvero pregiate.

Curiosità – La prima Byrdland di Nugent fa una brutta fine: “Al festival di Detroit indossavo una tuta bianca con lunghe frange” – ha rivelato – “ho fatto marcia indietro per fare il salto sugli amplificatori quando, per qualche stupido motivo, una frangia si è impigliata in chissà cosa e mi sono schiantato contro un Twin. L’intero muro di amplificatori è crollato sulla mia bella Byrdland bionda! La poveretta era ridotta in frantumi, mentre uscivo dal mucchio...”

Forse non tutti sanno che...
La storia narra che, attorno al 1985, un giovane Paul Reed Smith (PRS) stia cercando di far conoscere le sue chitarre ai rocker allora sulla scena. Non ha ancora una fabbrica o una vera e propria attività, solo qualche chitarra ben congegnata e ben costruita. Al tempo, nessuno è più popolare di Ted Nugent: Smith si imbuca nel backstage dove il chitarrista di Detroit dovrà suonare e riesce a consegnare ai roadie le chitarre che ha portato con sé, assicurandosi che le facessero provare a Nugent. Egli ne sarà entusiasta e diverrà uno dei primi endorser delle chitarre PRS. Le PRS fatte allora per Ted Nugent hanno due humbucker, ponte/tremolo con tailpiece, manico sottile, 24 tasti e due peculiari finiture, tigrata e zebrata: quest’ultima chitarra diventa famosa per Nugent che la utilizza nel video di High Enough (1990) con i Damn Yankees.

“Mi hanno detto: nessuno vuole un assolo di basso. Beh, io voglio un assolo di basso! Dammene uno, Rob [Grange]! E quell’assolo è mistico. Lirico, oltraggioso, roboante e soul. E il groove macina e frantuma...”

“È tutta una questione di Tone, dopotutto, giusto? Quell’abete rosso poroso che respira e vive ha una voce tutta sua, specialmente nelle mie mani, e con tutti gli amplificatori con cui la nutro.
C’è una soglia con la Byrdland che causa quel feedback e spaventa la maggior parte dei chitarristi perché non pare controllabile. Invece di farmi intimidire dal feedback, ho deciso di imparare a lavorarci sopra... Ovviamente l’assolo di chitarra in Journey To The Center Of The Mind, è la foto del più grande feedback della storia!”

“La mia musica non è forse l’ultima espressione del vero R&B? E’ grazie ai miei musicisti, siamo stati svezzati da Muddy Waters, Howlin' Wolf, Bo Diddley, Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis, Funk Brothers... eravamo così impegnati a suonare come loro. L’autenticità di quella dinamica nera, l’emozione, la sfida e la celebrazione del 'libero, libero finalmente'. Dobbiamo tutto a loro. So che questi ragazzi sono i padri fondatori, gli dei del tuono, che hanno creato le fondamenta e il pulsare della più grande musica del mondo! Quindi, sono stato davvero in cima alla montagna...”

“Sono davvero orgoglioso di quanto ho fatto. E questo è il risultato diretto del fatto che sono nato tre anni dopo che Les Paul ha elettrificato la chitarra e Chuck Berry e Bo Diddley, Lonnie Mack e Duane Eddy, Dick Dale e i Deltones e i Ventures, hanno mostrato a tutti cosa farne. Questi ragazzi erano dei veri pionieri... Se veneri quell’arroganza, quello spirito, quella sfida di Chuck Berry, Bo Diddley, persino di Lonnie Mack, le note e il sound prepotente di questi ragazzi; se ti immergi nella loro aura chitarristica, come potresti non continuare a farlo a modo tuo?”

“È una avventura stimolante quella con la Byrdland, Gibson produce gli strumenti migliori di sempre. Con tutti quei suoni, quella chitarra vuole mangiarti la faccia ma è questione di saper improvvisare come difenderti, prima di tutto controllando il volume. La parte migliore del feedback è quando ti supera e usi quell’indignazione per far fruttare il tuo suono. Jimmy McCarty collegava la sua Byrdland a un Fender Twin e faceva funzionare entrambi i pickup, questo è quello che lui mi ha insegnato... Con la Byrdland ottieni quelle note blues non possibili con nessun altro strumento, nemmeno con la tromba o con una tastiera, e questo mi eccita a non finire...”