RONNIE WOOD It’s Only Rock ‘N’ Roll (But I Like It)!

di Eugenio Palermo
01 novembre 2025

photo credits: Elisabeth Hoff

È uscita Fearless, Anthology 1965-2025, l’antologia di Ronnie Wood che non poteva che titolarsi così. Dal basso cannone nella supersonica Rice Pudding con il Jeff Beck Group allo slide epidermico di Stay With Me con i Faces, dalla dodici corde celtica di Maggie May con Rod Stewart al funky groove di I Miss You e le tessiture di Beast Of Burden con gli Stones, Ronnie Wood ha sempre fatto suonare alla grande qualunque cosa, rendendola memorabile occasione per festeggiare. Perché è solo rock ‘n’ roll e ci piace!!

Los Angeles, marzo 1975 – Ronnie Wood, in tour a supporto della lanciatissima carriera solista del suo gemello Rod Stewart, giace collassato a letto a pagar dazio dopo l’ennesima selvaggia, nottata rock’n’roll. A malapena riesce a rotolare per rispondere al telefono. È il destino che chiama, sotto forma della voce impastata di Mick Jagger: “Hey Woody, sono Mick e siamo disperati...”
Ron sa perché. Era sprofondato sul divano in mezzo ai due Mick [Jagger e Taylor] il 12 dicembre prima, mentre sbevazzando con loro, festeggiava l’imminente uscita del suo debutto solista a cui entrambi, oltre a Keith Richards, avevano partecipato. Taylor però poi li aveva trafitti annunciando che avrebbe...

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mollato il colpo: ... già, mollava i Rolling Stones proprio alla vigilia delle sessioni del nuovo album. Jagger, ripresosi dallo shock, allora gli aveva subito buttato l’amo ma Ron lo aveva messo in standby, coltivando ancora una speranza che i suoi Faces sopravvivessero alla faida con il loro dinamitardo frontman Rod Stewart: “Ma... se siete disperati, chiamami!” Appunto.

Da gran satanasso, Jagger ha trasformato le prove del sostituto in sessions (o viceversa). Harvey Mandel, Wayne Perkins, Peter Frampton, Steve Marriott, Robert A. Johnson, Shuggie Otis, Mick Ronson, Dave “Clem” Clempson, Nils Lofgren, sfilano quindi fra Monaco e Rotterdam; gli Stones jammano anche Rory Gallagher e Jeff Beck ma declinano all’istante, mentre Keith Richards mugugna su chiunque gli portino in studio. Jagger ormai ne ha abbastanza, forse è il caso di staccare la spina a quella giostra impazzita ma, prima chiama quella gran cartola di Woody. Gli Stones non si rifiutano due volte. Ed i Faces diventano la side band di Rod [Stewart].

Ronnie questa volta accetta, come Lazzaro si alza, vola ai Musicland di Monaco, entra come un raggio di sole e spazza via le nubi nere che opprimono gli studios: “Hey gente! Ho questa roba qua per voi!” E, imbracciata la sua Stratocaster, smozzica gli accordi sincopati di quella che sarà Hey Negrita! Charlie Watts sogghigna sornione: “Questo matto è qui da cinque minuti e ci sta già comandando!”
Con il suo carisma da randagio del rock e la leggerezza da Re delle feste, Wood fa tornare il sorriso a Richards sbaragliando la concorrenza e prendendosi il posto del lavoro più ambito e pericoloso del mondo: quello di chitarrista della più grande rock’n’roll band di sempre.

Imbarcato subito per il tour americano, il primo giugno del 1975 Ronnie festeggia alla grande il suo compleanno debuttando sul palco con gli Stones a Baton Rouge, in Louisiana, mentre il mese dopo rischia di aver già buttato tutto facendosi arrestare insieme a Richards in Arkansas e cavandosela per il rotto della cuffia con soltanto una multa. Chi diavolo poteva essere allora uno Stone se non lui?

Se vi è capitato in questi cinquant’anni di assistere a uno show dei Rolling Stones, ovvero la rappresentazione massima di cosa sia il rock’n’roll, dovete ringraziare Ronnie Wood, l’uomo che ha salvato gli Stones da loro stessi e alimentato il loro selvaggio folklore.
Di gran lunga il più adatto ad incastrarsi (umanamente e musicalmente, in studio e sul palco) con due ego da Re Sole ormai inconciliabili come quelli dei Glimmer Twins, riuscendo così laddove i grandissimi Jones e Taylor avevano, per motivi diversi, mollato.
Un musicista versatile e solido come un mattone, Ronnie, certo non solo il compagno di serate preferito di Richards; un musicista che, anche senza gli Stones, si è assicurato il suo posto nella storia del rock, graffiando come bassista negli esordi supersonici del Jeff Beck Group e come lead guitar e songwriter nei vulcanici Faces, oltre ad aver innescato la stratosferica carriera solista di Rod Stewart. Un pezzo da 90, quindi, già culo e camicia con Richards, che aveva ospitato a casa sua per quattro mesi (e coinvolto nel suo disco solista) e Jagger, al quale aveva dato il ritmo sciolto e grintoso dell’anthem per eccellenza It’s Only Rock’n’Roll, registrato nel suo seminterrato alla fine del 1973, firmando il jingle-jangle con la dodici corde.

Una vita esageratamente rock’n’roll quella di Ronnie Wood, 78 anni e ancora on fire in studio e sul palco, come abbiamo visto al concertone d’addio di Ozzy (dove, entrato con Steven Tyler, Tom Morello e Nuno Bettencourt, si è preso applausi e scena rollando su Train Kept A Rollin) e con l’attesissimo come back (dopo 53 anni!) dei Faces in canna per il 2026.

Due volte nella Hall Of Fame come membro dei Faces oltre che dei Rolling Stones, gallerista e pittore con i suoi dipinti esposti Londra e San Francisco, sopravvissuto miracolosamente a otto ricoveri in rehab, due tumori e tre mogli (l’ultima di trent’anni più giovane!) che gli hanno dato sei figli (l’ultimo a 69 anni!) e sei nipoti e, soprattutto, a sessant’anni di baldoria senza fine: dalle suite sfasciate e dal barista in livrea a servirlo sul palco al tempo dei Faces agli arresti, le scazzottate e le pistole puntate alla tempia fra lui e Richards e al becco di Bensen sempre operativo con gli Stones.
Da Mozart a Marley, Ronnie è un ecclettico che ha suonato con chiunque, da Paul Weller a Bo Diddley a Slash. Ma per tutti Wood è innegabilmente il terzo Stone.
E lo è sempre stato, fin da quando è nato il 1° giugno del 1947 a Hillingdon, West London, ultimo di tre maschi.

GLI ZINGARI DELL’ACQUA
Da tre secoli i Wood, come i materni Dyers, sono una storica famiglia di bargees, gli zingari dell’acqua, come vengono chiamati i barcaioli che trasportano legname, ghiaia e sale solcando sulle loro chiatte il reticolo fluviale londinese. Quella di Ronnie è la prima generazione a crescere sulla terraferma, in una casa popolare a Yiewsley, West London. Londra è ancora un gruviera per i bombardamenti nazisti, la strada è il parco giochi di una generazione di teppisti nata sotto le bombe, con i buchi nelle scarpe ma assatanata di vita e con il rock’n’roll, sbarcato con le truppe americane nei porti di Londra e Liverpool, nelle orecchie.

Suo padre Arthur è barcaiolo di giorno e armonicista di notte, mentre i tre Wood hanno sempre uno strumento o un pennello in mano e si scatenano nella stanza che i genitori han lasciato loro per sfogare la loro creatività. Ronnie a scuola fa parte del coro e canta nelle cattedrali, assorbendo come una spugna gli input dei fratelloni.
Art, più grande di dieci anni, lo introduce a I'm Walkin' di Fats Domino, Smokestack Lightning di Howlin' Wolf, Shame Shame Shame di Jimmy Reed e al mondo di Muddy Waters e, soprattutto, canta con Jon Lord e Keef Hartley, e poi con Cyril Davies e Alexis Korner, i pionieri del blues in Inghilterra. Ancora in pantaloni corti, Ronnie vede gli show di Davies con il supremo Nicky Hopkins (dieci anni dopo suoneranno insieme nel Jeff Beck Group e negli Stones) e il batterista Colin Little, che gli procura Chuck Berry.

L'altro fratello, Ted, otto anni più grande, è batterista di una jazz band e suona Johnny Dodds, Louis Armstrong, Bix Beiderbecke, Jelly Roll Morton ed è proprio lui a regalare a Ron la sua prima chitarra acustica. Ma quella è una generazione di teppisti che si forma con lo skiffle.
La prima apparizione di Ronnie è a nove anni suonando una washboard durante l’intervallo in un cinema locale, con alla testa il chitarrista di Ted che ha una acustica con le corde di budello e suona alla perfezione Guitar Shuffle di Big Bill Broonzy. Alla fine, Art e Ted regaleranno una vecchia chitarra spagnola al piccolo Ronnie.

Fra una tela e una jam, Ronnie apprezza anche l’andirivieni di compagne di scuola dei fratelloni, iscritti alla Ealing School Of Art. Anche per questo si iscriverà anche lui lì (come Pete Townshend, David Bowie e Freddie Mercury) vedendosi più come pittore che come rockstar, ma comprandosi a quattordici anni per 60 sterline una ascia elettrica e mettendo su un gruppo jazz con Dave Brubeck nel repertorio.

Poi i Rolling Stones cambiano tutto. Satisfaction sembra scritta per lui. Ronnie, che si divide fra El Greco e Chuck Berry, Picasso e Keith Richards, molla la scuola e non ci prova neppure a trovare un lavoro serio, a differenza dei fratelli, grafici di giorno e rocker di notte, e con la benedizione dei genitori si getta nella scena dei club. O sotto o sopra un palco, Ronnie tira l’alba a suon di rock ed eccessi.

IL POSTO GIUSTO AL MOMENTO GIUSTO
Si può forse immaginare un momento e un luogo migliore per essere giovani, ubriachi e selvaggi che in una band R&B sulla bocca di tutti nella Swinging Londra del ‘65? Certo che no, e Ronnie è proprio lì, dove ci sono tutti e tutto sta per succedere per la prima volta. Essere al posto giusto nel momento giusto è del resto la sua caratteristica.
Come quell'entrata memorabile nel febbraio del ’65, quando Ronnie si ritrova sul palco con gli Yardbirds facendosi avanti ad un appello di Clapton, orfano di Keef Hartley: “C’è qualcuno tra il pubblico che suona l'armonica?” Certo che c’è! E si ritrova a sciorinare con nonchalance I'm A Man, la sua canzone preferita. Alla fine, Clapton sguinzaglia i suoi: “Trovatemi quell’indiano che assomiglia a Cleopatra!”

Con il successo di Who e Stones come obiettivo, Ronnie debutta minorenne nel music business con l’R&B rumoroso dei Birds (non i Byrds americani...) con i quali partecipa al mitico show televisivo “Ready Steady Go!” che frutta alla band un contratto con la Decca. Il loro manager è il mitico Oldham e ha Lemmy come accanito fan.
Naufragati i Bird, Ronnie finisce a suonare la Stratocaster con l’archetto e dipingere tele sul palco con i super-psichedelici Creation, incrocia l’Hammond di Jon Lord nei Santa Barbara Machine, fa serate con Keith Moon, divide una stanza con Hendrix, se la spassa a vedere Daltrey manutenere la criniera d’oro facendosi shampoo con la birra, e finisce come bassista su Goo Goo Barabajagal con Donovan e sul rivoluzionario singolo Fire di Arthur Brown, il padre dello shock rock.
In una di quelle gloriose serate, Ronnie Wood finisce a sbevazzare con quella testa calda di Rod Stewart che si ricorda di lui quando, poco dopo, diventa il frontman del gruppo stellare di Jeff Beck fuoriuscito dagli Yardbirds per mettersi in proprio e dichiarare la sua guerra al mondo. Ovviamente, Beck è un comandante e per Ronnie c’è posto solo come bassista, ma lui non è tipo che si limita a timbrare il cartellino: la sua mano aggiunge parecchio Roll a quella bomba sonica di Truth (1968), mentre sul successivo e più heavy Beck-Ola (1969) griffa il songwriting di tutti i pezzi di quella tracklist storica, con il suo Fender Precision incastrato alla grande al devastante drumming di Tony Newman: da strapparsi i capelli il suo finale in Spanish Boots, irresistibile il timing sulla riffosissima Plynth, poderose le staffilate sulla muscolosa cavalcata Rice Pudding.
Il Jeff Beck Group è il futuro del rock, un terremoto pronto a spaccare la conca di Woodstock, ma al serioso Jeff non interessa e glissa l’invito, mancando l’appuntamento con l’Evento Musicale per eccellenza, più orientato alla musica che alla fama. Rod e Ronnie, al contrario, sono più interessati allo stardom più esagerato e con Beck fanno incetta di complimenti ma di soldi ne vedono pochi, mentre Jeff in tour alloggia in suite e loro due condividono bettole economiche.

A fine luglio ‘65 Ronnie viene buttato giù dall’astronave e, poco dopo, seguito dal compare Rod, intercettano i mod per eccellenza, gli Small Faces, freschi di abbandono della supernova Steve Marriott. I cinque uniscono le forze e ci riprovano ribattezzandosi Faces.
Le schizoidi avanguardie soniche di Beck sono un ricordo. Wood riprende in mano la Stratocaster e traina in un torrido e accattivante funky-rock il ringhio soul-pop proletario di Rod Stewart, con l’aggiunta della malinconia folk del bassista Ronnie Lane, in uno sgargiante tripudio di lustrini, sete e tacchi che preannuncia la stagione glam e impreziosisce i loro show fragorosi.

Fra sbronze colossali, spese da nababbi e suite demolite, i Faces hanno anche tempo per registrare quattro grandiosi dischi e fare centro in patria e USA, con un Ronnie Wood mattatore: la slide guitar posseduta di Around The Plynth, gli accordi dissonanti della hit Stay With Me, il boogie vizioso di Silicone Grown, la masterclass del ritmo Maggie’s Farm, la scanzonata malinconia di Oh La La, sono esempi di un musicista poliedrico e di un songwriter scaltro che sa quale benzina serve a far decollare Rod.

Pur se nel pieno del tritacarne tour-disco-tour (e pub) dei Faces, Ronnie è coinvolto anche nella parallela carriera solista di Stewart che finisce per proiettarlo nell’Olimpo dei grandi del rock.
Un successo irresistibile che, nel 1972, porterà Rod Stewart a dominare le due sponde dell’Atlantico, con il favoloso Every Picture Tells A Story, sia nella classifica degli album che in quella dei singoli, grazie a quella leggendaria Maggie May dove chitarre e basso sono ovviamente di Wood, Woody per gli amici, come anche nel folk senza tempo di Mandolin Wind. Gasoline Alley, True Blue, Every Picture Tells A Story sono altre perle di Wood che arricchiscono la gioielleria di Stewart.

GLI STONES
Gli anni dal 1969 al 1974 sono semplicemente folli. Quattro dischi con i Faces e altrettanti con Stewart, con annessi tour, oltre che i suoi primi, eccellenti, due dischi da solista.
Una situazione caotica che inevitabilmente porta all’usura fra un Lane palesemente geloso e uno Stewart palesemente concentrato sulla sua carriera solista, con i bagordi chimici e alcolici a corroborare le tensioni. Lane sbatte la porta e se ne va pensando che qualcuno lo segua ma i Faces continuano senza lui. Per poco, inevitabilmente.
E qui Ronnie, il gatto dalle sette carriere, coglie l’offerta di Jagger e chiude il cerchio, coronando il sogno adolescenziale: essere uno Stone.

Incredibilmente, ancora oggi si discute sul suo ingresso. Scelta al ribasso? Mica tanto, guardando il suo leggendario curriculum. Scelta pigra? Sicuramente chiamando un tuo vecchio compare di bagordi con il quale ti sei scambiato favori in studio vai sul sicuro ma, dopo Jones e Taylor, forse viene il sospetto che i Glimmer Twins abbiano un problema con i chitarristi.
Inoltre, son tutti bravi a suonare i loro classici in studio. Ma sul palco con gli Stones, con davanti uno stadio fuori di testa, ci vuole della tigna… per quel posto lì essere un musicista capace non basta. E poi gli Stones in quel 1974 stanno attaccati con lo sputo.

Jagger è più attratto dal glamour del jet set e Richards dallo sballo della brown-sugar, mentre Taylor non si è mai davvero integrato umanamente con la band; un pesce fuor d’acqua in quei live ormai asfittici. Gli Stones sono una barca che prende acqua da tutte le parti, un altro borioso peso massimo a bordo l’avrebbe fatta affondare all’istante. Ronnie Wood invece è il miglior giocatore di squadra sul mercato, la tessera mancante del puzzle. Woody, con il suo charme rilassato da party animal e la sua energica attitudine da showman, rappresenta una trasfusione di adrenalina che rianima gli Stones riportandoli alla grezza vitalità e a quelle sonorità Stax degli esordi.

Ronnie non è un pistolero veloce e virtuoso. Non è, come Brian Jones, un polistrumentista audace che arricchisce gli arrangiamenti della band con esotismi ed esoterismi (sitar, marimba, dulcimer, autoharp…), sincronizzato e distinto dal riff umano Richards né, come Mick Taylor, un bluesman meticoloso, un solista elegantissimo a sé stante oltre che contrappunto musicale alle sgangherate e crude chitarre di Keith.
Wood è un musicista concentrato sul groove e sul feeling, là dove l'energia e l'emozione guidano la musica più della precisione tecnica; lui si adatta alla canzone e non al suo ego, abilissimo nei Faces a fondere riff audaci con melodie orecchiabili. E se Taylor è scappato a gambe levate da quello stile di vita estremo per non finire come Jones, Woody vi si è tuffato a pesce abbracciandolo interamente e mettendoci il carico.
Inoltre, Woody è un gregario extra lusso che fa da mastice fra due pavoni da combattimento ormai separati in casa e riporta la gioia di schitarrare a Richards. Infatti, se lo stile di Mick Taylor così ben definito come solista aveva creato una netta distinzione con quello di Richards, la chimica fra Woody e Keith crea quella fitta e indistinta tessitura di jam improvvisate, una dinamica più sciolta e spontanea al suono della band che solidifica l'attacco a doppia chitarra degli Stones. Un feeling reciproco che proietta i loro live ad una dimensione gigantesca, cambiando l’immagine della band. Ancora più sporchi e cattivi ma non più odiati e reietti: da nemico pubblico numero uno eversivo e inquieto, a istituzione del divertimento e dell’energia.

Musicalmente, poi, diciamoci la verità: dopo l’incredibile sequela Beggars Banquet, Let It Bleed, Sticky Fingers, Exile On Main Street (marchiata dalla classe di Taylor, letteralmente scintillante in The Sway, Ventilator Blues, Jiving Sister Fanny…), il buon It’s Only Rock’N’Roll dimostra che il serbatoio delle idee è in riserva. L’ecclettismo di Wood permette alla band di rinnovare il guardaroba, stare al passo delle nuove mode (reggae e disco), come di connettere Richards al country western di Bakersfield e Gram Parsons, oltre che spogliare il proprio songwriting di ogni autoreferenzialità, resistendo all’urto iconoclasta del punk che spazzerà il rock prog. Tutto questo con la solita leggerezza di chi non prende sul serio niente e nessuno, tranne divertirsi jammando e festeggiando con chiunque.

QUESTIONE DI STILE
Anche se spesso in ombra da altri grandi della chitarra elettrica che hanno iniziato a Londra alla metà degli anni Sessanta (Beck, Page, Clapton), Wood è pioniere al loro pari per il suo lavoro guidato dalla sensazione con i Birds.
Debris dei Faces ne è esempio plastico: la pentatonica maggiore diagonale, il fraseggio perfettamente lirico, quel suonare nel mezzo laddove sa che può fare tutto senza mai strafare e andare al limite. Lo stile di Wood è dunque espressivo e fluido, molto percussivo e dalle dinamiche ben chiare, muovendosi leggero e scattante fra il ritmo e le linee principali, alternando strumming morbido e plettro aggressivo.

Woody, inoltre, è un chitarrista ritmico estremamente originale e innovativo, magistrale nel fondere ritmo e lead con anima, speziando riff ispirati a Chuck Berry con dissonanze fuori sincrono, incorporando hammer-on, fill di note singole e accompagnamenti percussivi, oltre a ricorrere a frasi frammentate e ornamenti per creare il suo caratteristico suono sfrontato e accattivante. Miss Judy’s Farm insegna di brutto.
Un altro inconfondibile tratto delle sue ritmiche è la musicalità e la scelta di accordi che spezza impiegando interessanti cambi di semitono, come nell’epidermica intro di Stay With Me, allungando estremamente le sue dita già lunghe e forti: il trucco che usa alla grande nello shuffle, come accade in Three Button Hand Me Now.

Come solista, Ronnie è tanto più espressivo quanto mai funambolico, totalmente concentrato ad ornare il mood e la narrazione del pezzo con (memorabili) linee orecchiabili e cantabili, veri e propri ganci melodici che si stampano nella testa. Paradigmatico in Maggie May dove varia quel motivo accattivante tirando fuori dal cilindro hammer-on, pull-off e slide.

Proprio lo sliding è il suo marchio di fabbrica, profondamente radicato nel country blues americano prebellico e nel blues di Chicago del dopoguerra. Non lo aveva mai provato prima del 1969 quando, come bassista del Jeff Beck Group, sente Duane Allman in The Weight di Aretha Franklin. Prendendo le mosse da lì (ma anche da Love In Vain e All Down The Line dell’amico Mick Taylor) accorda la Strat in Mi aperto e ci dà dentro con i Faces: prima Around The Plynth e poi That's All You Need, Borstal Boys, mentre con Sweet Lady Mary inaugura la pedal steel.
“Mi piace suonare i miei lick e mi piace suonare à-la Chuck Berry o quei fraseggi blues à-la Eddie Taylor. Ascolto a tutt’oggi Big Bill Bronzy, Elmore James, Grant Green, Matt Guitar Murphy, Hubert Sumlin. Tutti loro mi hanno influenzato e ciò è evidente nel mio stile...”
Ma Woody ha anche una bella mano con la chitarra acustica e, con una sontuosa Gibson J-200 a tracolla, esalta la vena folk celtica del bardo Rod [Stewart] come in You're So Rude, Ooh La La!, Maggie May e You Wear It Well, mostrano a tutt’oggi.


WOODY GEAR
Nei sessant'anni della sua mitologica carriera, Ronnie Wood ha imbracciato tutti i tipi di Fender, Gibson, ESP, Duesenberg, Versoul… ma Wood è uomo da Stratocaster per quel suono brillante e tagliente. La Old '55 Strat resta la sua chitarra numero uno per quasi tutto ciò che ha registrato. Ronnie ha due Sunburst simili: una del 1955, più sottile e leggera, l'altra del 1956, con il manico più grosso, comperate per festeggiare la firma con la Warner Bros nel 1974. Quella del ’55, inoltre, non ha il tremolo e le corde passano attraverso il body come una Telecaster.

Con i Faces poi, Wood, ha eccitato tutte le rockstar con due Zemaitis super-chic costruite su misura, chitarre elettriche note per il loro distintivo top in metallo: una ‘71 Metal Front Model e una ‘72 Disc Front Model, quest’ultima la chitarra di Stay With Me. Dotata di tre humbucker Gibson PAF, ciascuno con i controlli di volume e tono che selezionano al contempo differenti combinazioni, questa Zemaitis beneficia anche di una “piastra antigraffio” circolare, in alluminio, che migliora la risonanza naturale della chitarra e che, dotata di booster integrato alimentato a batteria, si attiva tirando verso l’alto il controllo del Master Volume, fornendo il caratteristico ringhio delle frequenze medie.
Stay With Me è stata registrata con un insospettabile Hiwatt, amplificatore pulito che comincia a ringhiare quando viene spinto forte, come accade con il booster della Zemaitis che aggiunge raspa e grinta. Ciliegina sulla torta, l’accordatura in open Mi che fornisce un generoso clangore di note all'unisono e rende il suono ancora più ricco di risonanza e proiezione.

Wood alterna Fender e Zemaitis e poi le più potenti Ampeg Dan Armstrong Lucite e le calde Les Paul Special e Junior, tutte armate di humbucker per plasmare il suo suono croccante, soprattutto con i Faces. In tal senso, decisiva la scelta dell’amplificatore: come altri pionieri londinesi, Wood spinge i confini dell’amplificazione entrando in competizione con Pete Townshend per chi sia il più rumoroso, tormentando Jim Marshall a fare amplificatori con più watt e con i controlli del volume che arrivino fino a 12! Nel 1965 Wood ha tra le mani una testata da 100 watt e un cabinet 8x12”, affermando di essere stato il primo a suggerire a Jim Marshall un cabinet con otto altoparlanti e il primo a riceverne uno.

In studio opta per l’anticonvenzionale scelta dell’Ampeg Bass SVT V2 V, il più grande e cattivo amplificatore per basso che il mondo abbia mai visto, una fantasmagoria interamente valvolare da 300 watt che aggiunge calore e profondità al suono della sua chitarra.
Il Fender Twin Reverb, noto per il suono pulito e una potente headroom, è invece un punto fermo nel rig che Wood porta sul palco. Sceglie ulteriori altri Fender per la grandiosa risposta alle dinamiche e la capacità di sottolineare le più sottili sfumature del suono: tra essi vi sono un Tremolux degli anni ‘50, un Tweed Twin a bassa potenza del ‘56, un Twin ad alta potenza del ‘58 e un nuovo Vibro-King. Per ottenere un suono à-la Hank Marvin quando necessario, Wood si appropria invece di un Watkins Dominator del ‘60.

La corposità del suono di chitarre con gli humbucker e la reattività alle dinamiche degli amplificatori valvolari sono dunque gli ingredienti del suono distintivo di Wood. Andando a spulciarne i segreti, si evidenzia che Woody fa un uso moderato del gain per mantenere la brillantezza del suono, enfatizza le frequenze medie per ottenere quel morso blues, mentre ammorbidisce le alte perché il suono risulti più morbido, ricco e grintoso. Un approccio minimalista e di buon gusto, con l’obiettivo di migliorare il suono, non di dominarlo.

Per la modulazione delle ritmiche Wood utilizza un MXR Phase 90, aggiungendo occasionalmente un pedale overdrive. Di base, egli si affida infatti all’overdrive naturale dell'amplificatore ed talvolta aggiunge un delay digitale, il Keeley Magnetic Echo Pedal.
Un riverbero sottile può anche aggiungere profondità al suono, soprattutto per le parti pulite o con un lieve overdrive, ma Wood non necessita di un pedale overdrive con il V2 a palla.
Infine, utilizza il Crybaby Wah Wah con parsimonia per aggiungere espressività a certi assoli.
Wood fa ampio uso dell’accordatura Open G (Sol aperto) per rendere gli accordi più espressivi e creare quel beat sciolto e potente, tipico degli Stones.

IL TRIS DI ASSI
Dopo il coraggioso e spiazzante Black And Blue (1976), l’album dei provini come lo aveva bollato Richards allora, là dove la classe di Wayne Perkins e Harvey Mandel alla chitarra si sono incrociate in alcuni brani, Ron si rimbocca le maniche e cala tutti gli assi del suo mazzo.
Il trittico Some Girls (1978), Emotional Rescue (1980), Tattoo You (1981), mette gli Stones al passo di quel periodo musicalmente rivoluzionario e li riporta di nuovo, dopo Goat Heads Soup (1973), al numero uno in patria e Stati Uniti, oltre ad entusiasmare la critica come non accadeva dai tempi di Exile On Main St. (1972). E la mano di Woody è decisiva: il funky groove di I Miss You, la pedal steel in Shattered (con tanto di basso new wave) e in When The Whip Comes Down (tutti pubblicati su Some Girls, 1978).
Ma è nella enorme Beast Of Burden (anch’essa su Some Girls) che si apprezza la miracolosa intesa che Wood instaura con il tumultuoso Richards: l’intelligenza e il gusto la fanno da padrona senza calpestare il riff di Richards e creando un groove morbido e rilassato.

In Emotional Rescue (1980) Ron s’incunea addirittura nella morsa dei condottieri Jagger-Richards accreditandosi per la prima volta con Dance pt.1, la song preferita fra quelle scritte per gli Stones: un riff funky al quale Jagger abbocca e salta su per incendiarlo in maniera definitiva. Nella title track, invece, Wood mescola funk e rock, aggiungendo quella sottile complessità ritmica al falsetto scioccante di Jagger.

In quanto a Tatto You (1981), l’enorme successo di Start Me Up, è l’ennesimo magistrale esempio della stretta interazione di Wood con Richards, mentre Black Limousine è il brano che griffa con la sua inconfondibile steel guitar à-la Hop Wilson e con un solo gustosissimo.
Se a tutto ciò aggiungiamo la pedal steel in Sweethearts Together (da Voodoo Lounge, 1994) e la cover Bob Wills Is Still The King proposta dal vivo, ecco che Wood si merita proprio la fine dell’apprendistato e l’ingresso ufficiale negli Stones... “soltanto” diciassette anni dopo “quel ‘Ron siamo disperati’…”

BOX 1
Ronnie Wood – Fear Anthology 1965-2025
Uscita per BMG Rights Management, Fear Anthology 1965-2025 è l’antologia discografica che celebra i 60 anni di carriera di Ronnie Wood: 38 tracce totali, per una sontuosa tracklist che, spaziando dai suoi sette album da solista a quelle di co-autore per Rolling Stones, Faces, Rod Stewart, Ronnie Lane e Jeff Beck Group, snocciolano la musicalità, la creatività, la passione e la caratura artistica del musicista britannico tra i più rispettati di sempre.

“Se siete tra i fortunati a conoscerlo, o lo adorate come musicista e autore, sentite Ronnie [Wood] come un vecchio, caro amico...” – dichiara Paul Sexton, che lo ha intervistato in diverse occasioni nei passati quattro decenni. “Tutti noi sappiamo di quella passione e visione artistica che lo accompagna sin da bambino e questa antologia ne è una concreta celebrazione”. “Senza la musica mi sarei sentito perso...” – ha detto Wood al Daily Telegraph nella primavera del 2025 – “Essere parte di un gruppo di amici che conoscono il potere della musica e fare insieme lo stesso viaggio mi ha sempre fatto sentire leggero e sollevato...”

L’antologia, curata dallo stesso Wood, è disponibile nei formati CD e vinile.


BOX 2
Ronnie Wood nasce nel 1947 in quella che lui definisce una famiglia di “zingari sull’acqua” [i suoi sono degli operatori dei canali di Londra e tutta la famiglia abita sopra una chiatta galleggiante] e sono i suoi due fratelli più grandi ad introdurlo al blues, al jazz e al rock della prima ora, ma anche alle opere di pittori come Caravaggio, Rembrandt, Goya, gli impressionisti e i modernisti del 20esimo secolo.

Ronnie inizia a disegnare sin da piccolissimo e poi a dipingere e a scuola è un bambino-prodigio molto conosciuto. Quando è un teenager imbraccia la chitarra e viene sedotto all’istante dalla magia e dalla sfida di quella sei corde. Ben presto prende a suonare con alcune band della sua zona.

Quando ha 17 anni mette in piedi i Birds, band di R&B con base a Yiewsley nell’area sud di Londra, mentre nel 1967 entra nel Jeff Beck Group suonando il basso e registrando due album che entrano nella storia: Truth (1968) e Beck-ola (1969). Torna alla chitarra quando raggiunge i Faces con Rod Stewart al microfono. “Sono passato dalla chitarra al basso innumerevoli volte, dunque ormai i due strumenti si compenetrano. Il periodo in cui ho suonato il basso con Jeff [Beck] mi ha portato a vedere la chitarra in una nuova prospettiva, a un approccio melodico. Quando poi sono tornato alla chitarra mi sono immerso nello slidin’, vista l’enorme influenza che Duane Allman ha avuto su di me...”
Talentato pluristrumentista, maestro dello slide e della pedal steel, Ronnie Wood compone le melodie di classici del rock come Gasoline Alley (1970), Stay With Me (1970) e Ooh La La (1973); pubblica sette album a suo nome, tra cui I’ve Got My Own Album To Do (1974), Gimme Some Neck (1979), Slide On This (1992)... e collabora con Bob Dylan, Aretha Franklin e David Bowie tra gli altri. “Un tubo di rame, è quello che uso! Uso anche la slide-bar Stevens di acciaio con la lap steel e la Bullet con la pedal steel, e ho usato anche coltelli e accendini...”

Ronnie Wood diviene uno Stones a metà dei Settanta, dopo l’uscita di Mick Taylor, ed entra all’istante in sintonia con lo spirito e la musicalità di Keith Richards. Da allora i due fratelli/compagni di band rendono intoccabile il live set di ogni concerto degli Stones fino ai giorni nostri.

Ronnie Wood è anche un riverito ritrattista ed alcuni suoi dipinti appaiono nel libro del 2017, titolato semplicemente “Artist”. Il suo libro, “SetLists” (2018) è una collezione di interpretazioni artistiche delle scalette dei tour dei Rolling Stones, con sopra i suoi appunti personali, disegni, dettagli e versioni varie.
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“In altre band seguono il batterista. Gli Stones seguono Keith, e lo hanno sempre fatto...”
Ronnie Wood

“Sono un diplomatico per natura. Cerco di trovare la via di mezzo. Faccio una battuta e uso l’umorismo per aiutare a risolvere con rapidità situazioni potenzialmente viziose. Mette le cose in prospettiva e aiuta tutti a vedere che il tutto non è così male come sembra.”
Ronnie Wood

“Ero infastidito per non aver ottenuto i credit di un paio di canzoni, “Till The Next Goodbye” e “Time Waits For No One”, ma non era l’unica ragione. Mi ero sentito come se ne avessi abbastanza. Decisi di andarmene e di formare una band con Jack Bruce. Non so perché, ma non avevo mai pensato che sarei rimasto con gli Stones, nemmeno all’inizio...”
Mick Taylor

“Il primo basso fu un Fender Jazz che avevo avuto da Sound City, un negozio di musica a due passi da dove provavamo. Non avevo soldi, non potevo pagarlo, quindi l’ho preso in prestito e non l’ho mai più restituito. Circa cinque anni dopo l’ho pagato... dopo che mi hanno rintracciato!”
Ronnie Wood

“Dopo che Mick Taylor se n’è andato, abbiamo provato per circa sei mesi con un sacco di bravi chitarristi provenienti da ovunque. E potevamo lavorare con loro, ma quando Ronnie si è reso disponibile ed è entrato all’improvviso, non ci sono stati dubbi. È stato facile...”
Keith Richards

“È stato difficile ottenere il suono dei Rolling Stones con Mick Taylor. In un modo o nell’altro era più una separazione fra lead e ritmiche. Per quanto sia favoloso come chitarrista solista, non era un grande chitarrista ritmico; quindi, abbiamo finito per accettare dei ruoli. Quando io e Brian [Jones] avevamo iniziato, non era così. Era molto più facile con Brian, personalmente parlando. Il modo di Ronnnie [Wood] è molto più simile al mio e anche se non sapesse suonare un cazzo, mi piace quel ragazzo... Se a Ronnie cade il plettro, posso suonare il suo lick finché non lo raccoglie e non si nota nemmeno la differenza.”
Keith Richards


“Un tubo di rame, è quello che uso! Uso anche la slide-bar Stevens di acciaio con la lap steel e la Bullet con la pedal steel, e ho usato anche coltelli e accendini...”
Ronnie Wood


“Ho quel rapporto con altri musicisti – Buddy Guy, Muddy Waters – ma non così fluido come con Keith [Richards]. Muddy, è il capo, il padre di tutti loro. Adoro il modo in cui ha fatto tutto. Un altro è Hubert Sumlin, che ho conosciuto a New York. Quando è venuto a casa mia abbiamo suonato tutta la notte. È fantastico. Adoro quell’uomo e adoro come suonava con Howlin’ Wolf...”
Ronnie Wood

“La mia filosofia, quando scoppiava una rissa, era di levarmi dai piedi il prima possibile. Mi tenevo fuori dalle liti fra mod e rocker, rimanendo un ‘mocker’. Una sera, ero al Blue Boar con Jeff [Beck], stavamo mangiando, quando notammo certi rocker radunati fuori vicino ai distributori di benzina, con bastoni, mazze da baseball e cerchioni d’auto, che guardavano dritto verso di noi. Capii che c’erano guai in vista e volevo sgattaiolare via, ma Jeff cominciò a provocarli, gridando da dietro la vetrina: ‘Vaffanculo, coglioni’ con ogni sorta di gestacci. Chiesi a Jeff se aveva idee più brillanti, del tipo: ‘Come cazzo usciamo di qui, adesso?’ L’unica soluzione che gli venne in mente fu correre. Così, mollammo il cibo e schizzammo fuori dal caffé, puntando dritto verso l’auto...”
Ronnie Wood


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