ASYMMETRIC UNIVERSE "A Memory And What Came After"

di Francesco Sicheri
01 settembre 2025

intervista

Asymmetric Universe
Federico e Nicolò Vese
Memory And What Came After
C’è qualcosa di molto incoraggiante, e per certi versi anche sorprendente, nel vedere una band italiana dedita al prog-metal strumentale (contaminato peraltro da jazz, fusion, orchestrazioni e musica elettronica) firmare un contratto con una delle etichette simbolo del prog internazionale. Ma è esattamente ciò che è successo agli Asymmetric Universe, che lo scorso giugno sono ufficialmente entrati nel roster di InsideOut Music, la casa di band come Dream Theater, Devin Townsend, Leprous, Haken, giusto per fare qualche nome. Il 29 agosto 2025 è uscito A Memory And What Came After, primo album firmato da Federico e Nicolò Vese.

Prog-metal strumentale, contaminato peraltro da jazz, fusion, orchestrazioni e musica elettronica, A Memory And What Came After è la dichiarazione d’intenti degli Asymmetric Universe. Oggi prog non significa inseguire cliché e incastri per il gusto dell’artificio, ma sapersi esprimere con un linguaggio che sia tecnico, certo, ma musicale e dalla precisa identità. Tutto questo accade nel disco della band torinese, a cui si aggiungono due chicche-extra: Adam “Nolly” Getgood (storico bassista e producer dei Periphery) ha infatti curato i suoni di batteria ai Middle Farm Studios, mentre Richard Henshall degli Haken ha firmato l’assolo nel brano Coquelicot. Due presenze che...

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non hanno certo bisogno di presentazioni nel circuito del prog contemporaneo, e che testimoniano quanto il progetto dei fratelli Vese abbia generato già radici profonde.

Gli Asymmetric Universe nascono nel 2018 ad opera dei fratelli Federico e Nicolò Vese: entrambi in possesso di una formazione da compositori e producer più che da performer puri, i due hanno puntato da subito a un’idea precisa: fondere metal moderno e jazz, orchestrazione da camera e ambient, chitarra tecnica e architettura armonica. Un progetto ambizioso, certo, ma portato avanti negli anni con dedizione e competenza. Nel 2023 la band pubblica il secondo EP, The Sun Would Disappear As I Imagined All The Stars, mixato da Forrester Savell (già al lavoro con Karnivool e Dead Letter Circus) e masterizzato da Ermin Hamidovic, mentre nello stesso anno si lanciano nel primo tour europeo aprendo per gli Ne Obliviscaris, oltre che a suonare in Italia come opening act per i Caligula’s Horse.

E ora eccoli qui: con un disco fresco di stampa su una delle etichette di riferimento per la musica prog, per una proposta che non ha nulla da invidiare alle produzioni estere per qualità compositiva, suono e visione. Il singolo Don’t Go Too Early, che ha lanciato il primo lavoro in studio della band italiana, è un concreto manifesto sonoro: jazz fusion, prog-metal, sezioni di fiati, quartetto d’archi e una produzione modernissima. Il tutto, corroborato da una precisione millimetrica, ma anche da un’ironia sotterranea che tradisce la libertà creativa di chi sa esattamente qual è il suo obiettivo.

Abbiamo incontrato Federico e Nicolò Vese per parlare di A Memory And What Came After, delle sfide della composizione, della collaborazione con “Nolly”, della pasta sonora e persino delle dinamiche tra single coil e otto corde in ambito prog. Ne è venuta fuori una chiacchierata
appassionata e anche parecchio tecnica: proprio come la musica che suonano.


Partiamo dalla genesi del disco. Quando avete iniziato a lavorare sulle tracce di A Memory And What Came After? Siete soliti seguire un processo consolidato?
Federico – In realtà questa volta abbiamo fatto le cose in modo un po’ diverso dal solito e il lavoro del disco è partito a settembre 2023, appena rientrati dal tour. Di solito il nostro processo compositivo scaturisce da un input che ci entusiasma, legato a un genere, spesso il metal, che successivamente prendiamo a contaminare con funk, jazz, fusion. In sostanza, è l’approccio che ci ha sempre permesso di arrivare ad ambientazioni sonore inaspettate. Questa volta però, ogni brano è nato già con un’identità e un sound ben definiti. Ad esempio, Coquelicot è nato già con la sua vena funk e dunque non c’è stato bisogno di elaborare le varie parti. In pratica, il pezzo è nato con quella direzione già dentro.

C’è un filo conduttore che lega i brani? Un concept sottostante, oppure ogni brano è una storia a sé?
Nicolò – Questa volta, a differenza dei due EP precedenti, non c'è un vero e proprio concept a tirare le fila del discorso, ma si tratta di una raccolta di brani ispirati da esperienze personali.
I lavori precedenti erano caratterizzati da brani che si intrecciavano tra loro anche a livello tematico, ma nel nuovo disco invece no. Ogni pezzo è un ricordo, l’immagine di un momento che ci appartiene. Magari Coquelicot ti richiama i papaveri e il loro valore simbolico, ma non c’è una spiegazione univoca: ognuno ci proietta qualcosa di proprio. Lo stesso vale per Reaction e Recovery: forse gli unici due brani che hanno una connessione più forte fra loro. Ma anche lì, è più una questione emozionale, una sensazione personale che si riflette nella musica.

Quindi si potrebbe dire che il concept, se c’è, è in realtà quello che ognuno ci vede dentro...
Nicolò – Esatto. Non è un concept, ovvero una narrazione stabilita a priori. Se esiste, è qualcosa che si costruisce nel tempo e nell’ascolto, un po’ come succede con i ricordi. In questo senso, il disco è molto più aperto e personale rispetto a quanto abbiamo fatto in passato.

La musica strumentale ha la capacità quasi magica di lasciare gran spazio all’immaginazione. È qualcosa che notate anche voi nel vostro processo creativo?
Nicolò – Certamente. Quando studiavo, ai tempi del conservatorio e di musicologia, mi colpiva proprio questo: la musica strumentale ha una libertà enorme, quasi illimitata, ma anche pericolosa. Se non hai delle “scatole” di riferimento, rischi di perderti. La libertà, se non la sai gestire, diventa un’arma a doppio taglio.
Federico – In realtà, in questo disco ci siamo dati delle limitazioni precise. L’idea era di non cadere in quel flusso di coscienza che può essere affascinante ma dispersivo. Volevamo brani costruiti con idee forti, che restassero in testa, anche canticchiabili se vuoi. È stata una limitazione positiva, una scelta consapevole per rendere i pezzi più concreti e riconoscibili.
Nicolò – Aggiungo che questa volta non abbiamo avuto quella frenesia di infilare dentro tutto. Sai, quando ascolti qualcosa che hai scritto tempo addietro e pensi: “Wow, questa parte è bellissima... ma dura pochissimo!” Adesso, invece, se abbiamo una buona idea in testa, ci lavoriamo sopra, assegnando ad essa il tempo e lo spazio che merita. Credo che questo sia un passo verso la maturità artistica: imparare a contenersi, a far crescere un’idea invece di inseguirne dieci contemporaneamente.
Federico – È proprio così. La voce, nei brani cantati, impone una struttura precisa – strofa, ritornello, bridge – e anche noi cerchiamo di rifarci a quella logica, almeno come punto di partenza. Dopo anni di esplorazione, stiamo trovando finalmente dei limiti che ci aiutano e ci stanno addosso bene. E questo riteniamo che ci abbia permesso di costruire un’identità più solida, più riconoscibile.

Parlando di strutture e limiti: la vostra musica ha spesso una complessità notevole. Come gestite la stratificazione delle parti e il rischio di diventare troppo cervellotici o autoreferenziali? È un tema su cui riflettete come band?
Nicolò – Assolutamente sì. In particolare, da quando abbiamo iniziato a lavorare con l’etichetta [I Scream Records/Side Out], ci sono arrivati dei feedback anche da persone che non sono musicisti né compositori e sono stati molto preziosi, perché chi non vive di musica tutti i giorni ti fa capire subito quando stai diventando troppo complicato. Se un brano non arriva, o se una parte è troppo densa, chi ascolta da fuori lo percepisce subito. È lì che si gioca la differenza tra musica complessa e musica incomprensibile.
Federico – In questo disco, proprio per il discorso del cercare di essere più diretti e fluidi, abbiamo lavorato per limitare la stratificazione delle parti strumentali. Nel secondo EP, ad esempio c’erano intere sezioni di un quartetto d’archi, pur se con un approccio molto libero. Qui invece ogni elemento è funzionale all’identità del singolo brano.

Un altro aspetto del disco è che, in assenza della voce, certe melodie sembrano rivestire proprio quel ruolo. Lavorate in tal senso in maniera consapevole, adottando melodie ricorrenti, magari in chiave sinfonica?
Federico – Ti dico la verità: in questo disco non c’è stata una pianificazione in tal senso. Alcune melodie ritornano, ma è successo in modo spontaneo, non strutturato a priori. Però è una direzione che ci piacerebbe esplorare in futuro. L’idea di sviluppare una narrazione strumentale basata su temi ricorrenti, come si fa in ambito sinfonico o operistico, è qualcosa che sentiamo molto vicino. Anche perché ci accorgiamo che, in modo naturale, alcune cellule melodiche tendono a riaffiorare nella nostra musica.
Nicolò – E’ un percorso naturale, secondo me. Quando fai musica strumentale, la ripetizione, pur se con timbriche diverse, diventa un elemento per farti riconoscere, per creare identità.
Federico – Sì, sicuramente ricerchiamo un filo conduttore, una coerenza. Anche nei pezzi più heavy, c’è l’intento di sviluppare un’identità, una riconoscibilità. Magari con la scelta delle melodie o delle ritmiche, soprattutto in quelle che per noi sono le “strofe”, ovvero le parti più ariose e magari di stampo funk. Lì c’è spesso una chitarra con quel suono e quel groove che ormai sono diventati parte del nostro linguaggio.

Domanda forse un po’ leggera, ma diremmo lecita: c’è stato un brano o una sezione che vi ha fatto davvero impazzire? Quei momenti in cui cercare la perfezione può diventare quasi un rischio per la salute mentale…
Federico – Senza dubbio dico Dancing Through Contradictions...
Nicolò – Sì, probabilmente quello. Anche perché, lo diciamo senza problemi, è un brano che rappresenta il nostro modo di scrivere di un tempo. È stato uno dei primi pezzi composti per questo disco, quando eravamo ancora immersi nella mentalità dei primi EP.
Federico – Esatto. C’erano ancora dentro tutti quei meccanismi compositivi che ormai non ci appartengono più. Quando lo abbiamo registrato, era passato quasi un anno dalla composizione, e ci siamo ritrovati a pensare: “Ma cos’è ‘sta roba complicatissima?!” In sostanza, non ci pareva rappresentare chi siamo adesso.
Nicolò – E infatti ci abbiamo sbattuto la testa parecchio. È stato complicato rientrare in quel tipo di mindset. Alla fine, abbiamo ricercato il balance il disco, perché parliamo di un lavoro che ha richiesto due anni, un anno e mezzo almeno, quindi, c’è stato un processo di maturazione in mezzo che ha cambiato le nostre prospettive.
Federico – Sì, abbiamo ricercato un bilanciamento, un’uniformità di intenti, e quel pezzo lì è un po’ una voce fuori dal coro. A dire il vero, anche Opaco è stato un brano molto impegnativo da registrare: non tanto per la complessità tecnica, ma proprio per la densità emotiva e strutturale che richiedeva tanta attenzione in ogni risvolto.

Dobbiamo ammettere che Opaco è stato uno dei brani che ci ha colpiti di più all’ascolto. Ha una forza divisiva, quasi provocatoria...
Federico – Opaco è uno di quei pezzi che o lo ami o lo odi. C’è chi l’ha davvero detestato. E’ uno di quei brani per cui l’ascoltatore si sente come sfidato e messo in discussione. Insomma, uno di quei brani che suscitano reazioni forti.

E forse oggi non succede così spesso neppure nel progressive, che una volta era il genere più divisivo per eccellenza…
Federico – Esatto. Il progressive è diventato una sorta di grande contenitore in cui si mette un po’ di tutto. E anche lì, i pezzi che spaccano sono sempre più rari. Spesso si ricerca soltanto la definizione giusta, ma il contenuto rischia di uniformarsi.

E in questo disco sembra invece che abbiate trovato un equilibrio tra forma-canzone e libertà strutturale.
Federico – Sì, con questo album l’idea è diventata più chiara anche per noi. Volevamo che ogni brano avesse una struttura più leggibile, quasi pop nel senso buono del termine: strofa, ritornello, un tema forte. Nei primi EP eravamo molto più fusion, nel senso che doveva per forza partire un assolo, un incastro tecnico, un cambio di tempo. Adesso invece c’è più controllo, più consapevolezza. E anche più ascolto reciproco.
Nicolò: Sì, cambia proprio la scala delle priorità. All’inizio vuoi sempre dimostrare quello che sai fare, vuoi far vedere che tecnicamente ci sei. Poi con il tempo ti accorgi che il messaggio è più importante del virtuosismo. E inizi a fare scelte diverse.
Federico: In questo disco, la canzone c’è. C’è la forma. E dietro ogni parte c’è un’idea precisa, che abbiamo cercato di rispettare e valorizzare, senza farci prendere la mano.

In quanto alle sonorità, che genere di direzione avete intrapreso?
Nicolò – Rispetto ai lavori precedenti abbiamo decisamente messo mano a un vasto ventaglio di influenze. Questa volta abbiamo guardato molto di più all’R&B moderno. Vedi, ad esempio, artisti come Cory Wong: quelle chitarre ritmiche, incastrate, con un feel molto più funky e rilassato.
Federico – Sì, e anche col sound design abbiamo osato di più. Prendi Fair Enough, la seconda traccia del disco: lì ci siamo proprio detti “ok, trattiamola quasi come se fosse una hit pop”. È un brano che ha un ritornello volutamente catchy, quasi “comico” nel suo essere pop. Lo abbiamo costruito con un beat in stile trap, una 808 bella corposa, un synth minimalista. Abbiamo voluto mimare quel tipo di estetica, ma a modo nostro.
Nicolò – Esatto, la trap da sola magari non ci appartiene, ma alcune sue sonorità sono interessantissime e se inserite in un certo contesto diventano davvero stimolanti. Abbiamo lavorato con sintetizzatori come Serum, campionatori e, in generale, ci siamo lasciati contaminare da quella vena R&B e urban che sta rendendo certi dischi molto freschi oggi.
Federico – Detto ciò, non abbiamo abbandonato del tutto alcuni elementi che ci appartengono da tempo. Anche in questo disco ci sono i fiati, gli archi... ma con interventi più mirati. Invece che un quartetto d’archi pieno e continuo, ad esempio, abbiamo preferito puntare su linee di sax che raddoppiano i temi o sottolineano passaggi specifici. Meno presenza, ma più rilevanza. Ogni intervento è pensato per rafforzare un’idea, non per abbellire a caso.

Alla fine, il fatto di asciugare il quartetto d’archi vi ha anche lasciato maggior spazio nel range delle frequenze, no? Lì si addensa sempre tutto: archi, chitarra, basso… ed il rischio è che il suono ne perda in chiarezza.
Nicolò – Esatto, è stato un vero e proprio lavoro di orchestrazione. Ci siamo messi a ragionare su cosa si sovrappone a cosa, proprio come dicevi tu. La definizione delle timbriche è fondamentale; viceversa, se si addensano nello spettro, soprattutto nei momenti più intensi, rischiano di annullarsi a vicenda.
Nicolò – È un discorso che ha molto a che fare con i moderni processi di produzione. Pensare in termini di frequenze ti costringe a fare scelte precise. Certo, potresti sempre risolvere con l’equalizzazione drastica, ammazzando certe frequenze, ma in quel modo perdi dettagli e musicalità. Per noi, la soluzione è stata lavorare in partenza sugli incastri, sugli spazi, senza dover per forza correggere tutto in post.

Parliamo un po’ di gear. Siamo su una rivista per chitarristi e bassisti, quindi andiamo dritti al punto: quali strumenti avete utilizzato per il disco?
Federico – Ho utilizzato una Custom Raw 8 costruita da Sic Instruments, progettata insieme a Simone Calabrese [mastermind del marchio torinese]. Cercavo una 8 corde con un suono ben preciso, cosa non semplicissima considerando che già di per sé il mercato delle 8 corde è una nicchia. Simone e io ci conosciamo da tempo, quindi abbiamo messo giù il progetto insieme, selezionando legni, scala e pickup, in base a una chiara idea del suono. Riguardo ai pickup, sono legato a Bare Knuckle e per questa chitarra abbiamo creato un vero e proprio Frankenstein. Al ponte c’è infatti un finto-humbucker composto da due single coil Trilogy Suite, accoppiati per generare un suono grosso e compatto. Al manico invece c’è un solo Trilogy. L’idea è stata quella di ottenere un mix tra le classiche timbriche di una Telecaster e quelle di una Stratocaster. Di base la configurazione è quella della Tele, ma con la possibilità di esplorare suoni più strat-style, molto aperti e dinamici.

Ed è un mix che funziona particolarmente bene con le accordature ribassate, no? Quelle medio-basse così pronunciate tendono a pareggiare lo scarico naturale del single coil.
Federico – Esatto, è lì che il setup mostra la sua forza. Il single coil con l’accordatura bassa ti dà una risposta piena ma sempre articolata. Inoltre, essendo pickup passivi e non compressi, puoi lavorare moltissimo di dinamica. Oggi si pensa spesso a output elevati e pickup attivi, mentre in realtà se hai un single coil con buona dinamica e suoni con decisione, puoi tirar fuori un sacco di carattere.

Quindi meno compressione, più reattività e un suono più vivo.
Federico – Sì, e questo si sente anche nelle parti lead. Il suono rimane intellegibile, espressivo, con una pasta personale. Come rig principale ho usato un Fractal Audio Axe-Fx II che mi ha permesso di tenere tutto sotto controllo tra effetti, IR e simulazioni d’ampli.

E per quanto riguarda il basso, Nicolò? A quale ti sei affidato per il disco?
Nicolò – Il mio basso principale è un Mayones Commodus a 6 corde. Non è in commercio come modello standard, quindi viene costruito su richiesta. Io l’ho ordinato un bel po’ di anni fa e ci era voluto quasi un anno per riceverlo. L’ho utilizzato già per il secondo EP ed è diventato il mio strumento principale. Monta pickup Aguilar Soapbar attivi, con un’elettronica fantastica: sono passato da una scuola decisamente Fender, visto che sono cresciuto con un Jazz Bass e con un suono che mi è sempre rimasto nel cuore, ma a un certo punto cercavo qualcosa di più flessibile. Il suono del Jazz Bass con lo slap è iconico, certo, ma molto specifico. Con il Commodus ho una palette timbrica molto più ampia: posso scolpire le medie, enfatizzare frequenze basse e alte e tirar fuori uno slap pieno, moderno, e sempre musicale. Nonostante sia un 6 corde, la tastiera ha praticamente la stessa larghezza di un 5 corde Fender e per me è perfetta, poiché riesco a muovermi agilmente anche nelle linee più complesse.

E a livello di amplificatori?
Nicolò – Dal vivo uso una Line 6 Helix rigorosamente mappata in Midi, in base ai brani da suonare in scaletta. Per il disco ho lavorato in modo più tradizionale, registrando il basso in diretta, in studio, sul cui suono abbiamo lavorato in un momento successivo, pur se la pasta del suono è quella
del Commodus con gli Aguilar.

Riguardo ai suoni di batteria avete collaborato con niente di meno che Adam “Nolly” Getgood: ci raccontate com’è nata questa collaborazione?
Federico – Tutto è nato grazie a Sebastian Sendon, che ha mixato il disco. Parlando con lui ci ha raccontato che stava collaborando con Nolly e così, quasi per scherzo, gli abbiamo detto: “sarebbe una bomba registrare con lui ai Middle Farm Studios”. Poi una combinazione di eventi ha fatto sì che si liberassero delle giornate proprio al Middle Farm [UK] e ci siamo ritrovati lì. Una situazione incredibile. Nolly si è dimostrato una persona squisita, super disponibile. Abbiamo avuto modo di “nerdare” tantissimo: abbiamo parlato di accordature, scelte timbriche, di quei dettagli che magari per altri sono minuzie, ma che per noi sono linfa pura. È stato un confronto molto stimolante.
Nicolò – E poi la selezione di batterie e rullanti era da andar fuori di testa. Una quantità di strumenti e apparecchi da studio imbarazzante, e tutto curato nei minimi dettagli.
Federico – Uno dei momenti più divertenti è stato quando abbiamo pensato ai piatti. Era già sera e faceva buio quando Nolly ci ha portato nel magazzino in cui tiene parte della sua strumentazione. Pioveva, ovviamente. Lui via via prendeva i piatti, li montava su un’asta nel parcheggio davanti e ce li faceva ascoltare al buio, con le sole torce dei cellulari. Una scena surreale e bellissima. Tutto molto semplice, diretto. Nessuna distanza, nessuna aura da leggenda del metal, solo un gran passione condivisa.
Nicolò – Sì, è stato proprio caloroso il suo approccio con noi. Abbiamo parlato anche di cose personali, ci ha fatto assaggiare il suo caffé e lui è super nerd anche su quello: 20 minuti per prepararlo come si deve!
Federico – Sarebbe dovuto arrivare in studio il primo giorno delle registrazioni, e invece si è presentato la sera prima, ha dormito lì, al Middle Farm, e abbiamo iniziato a lavorare già quella notte. Non era tenuto a farlo, ma si è trovato bene e alla fine si è fermato un giorno e mezzo in più. È stato bello anche sentirgli dire: “di solito non lavoro su produzioni altrui, ma voi mi piacete, siete simpatici, facciamo allora delle batterie perfette...” E così è stato.

E sul fronte live? State pensando alla promozione del disco?
Federico – Al momento stiamo cercando di agganciare un tour; qualcosa si sta muovendo, probabilmente verso l’inizio del 2026, ma se riusciamo a partire prima, tanto meglio.
Nicolò – Sì, la volontà c’è. Come puoi immaginare, in Italia non c’è gran spazio per musica come la nostra, quindi stiamo pensando in un’ottica europea.
Federico – Esatto. Stiamo puntando a un tour europeo. Però e, lo diciamo senza voler fare i catastrofisti, oggi fare un tour è diventato complicato. I costi si sono alzati parecchio e certe realtà medio-piccole si trovano a dire “mi fermo”, perché diventa insostenibile. È un problema reale, non solo nostro.

Beh, speriamo comunque di vedervi presto sul palco...
Federico – Lo speriamo anche noi!

Grazie ragazzi, e in bocca al lupo per tutto.
Nicolò e Federico – Grazie a voi!