JOHN SYKES Bad Boy

di Eugenio Palermo
02 dicembre 2025
Tutti associano bestsellers come Appetite For Destruction a Slash, Back In Black ad Angus Young o 1984 a Eddie Van Halen, ma ben pochi associano John Sykes al pluri-decorato 1987 dei Whitesnake. Eppure, è stato il pioniere della N.W.O.B.H.M. con i Tygers Of Pan Tang, l’ultimo grandioso chitarrista dei Thin Lizzy, il guitar hero inglese che ha guardato negli occhi gli shredder americani marchiando gli anni Ottanta con il suo suono di lava e il suo vibrato che è un arcobaleno, cavati fuori da una Gibson Black Beauty diventata leggenda. Com’è possibile che sia stato inghiottito in un oblio lungo trent’anni? A un anno dalla sua scomparsa, Guitar Club rende onore a John Sykes.

Dicembre 1986 – Londra, Townhouse Studios. John Sykes sta friggendo. Da giorni non riesce a contattare David Coverdale e sente puzza di bruciato. Il loro ultimo incontro è stato burrascoso e Coverdale si è rintanato in gran segreto con il nuovo produttore Keith Olsen ai Good Night Studios di L.A. per il mixing del soffertissimo e allora nuovo album della sua band, Whitesnake: l’album che deve, ed è un imperativo, conquistare gli USA.
Sykes è co-autore di nove degli undici brani (gli altri due,...

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Here I Go Again e Crying In The Rain sono nuove versioni di quelli incisi su Saints & Sinners del 1982) e pretende di metter becco. Coverdale, spalleggiato da David Geffen, non lo vuole in mezzo ai piedi, i due galli si mandano a quel paese e Coverdale spedisce Sykes a Londra a finire le chitarre, dove scopre che le sue parti di Is This Love? sono state arbitrariamente cancellate.

Ai Townhouse Studios Sykes incontra Neil Murray, che è lì per ritoccare le sue parti di basso, ed è lui a rivelargli le novità: Mike Stone, il produttore, è fuori; Ainsley Dunbar ha lasciato i tamburi e salutato tutti dopo che, finito il lavoro ad aprile, non ha più ricevuto lo stipendio concordato, e lo stesso Murray è stato rimpiazzato con Rudy Sarzo. Coverdale, di nuovo on-fire dopo l’intervento ai seni nasali che lo ha tenuto fermo un anno e con l’album ormai in dirittura d’arrivo, ha fatto tabula rasa.
E Sykes? L’arma segreta di quel plotone di killer-song pronte a invadere MTV? Visto che Coverdale s’è fatto nebbia, Sykes chiama John Kalodner, il guru della Geffen: “Ehi John, devo pensare che sono stato licenziato anch’io?” Kalodner può solo farfugliare: “Ehm, uhm... pare di sì”. Due settimane dopo Sykes piomba a Los Angeles ai Good Night e affronta a muso duro Coverdale.
Il putiferio entra nelle cuffie del nuovo inquilino del serpente bianco, Adrian Vandenberg, il quale, nella saletta sul retro si accinge a rifare gli assoli di Here I Go Again. Sykes tenta di smollare una noce sul grugno di Coverdale che scappa fuori, si chiude in auto abbassando il finestrino quei due pollici tanto per belare che lui non ne sa niente, che è colpa della Geffen, e poi sgomma via. John è fuori di sé, sale sulla Corvette della sua compagna e lo insegue, deciso a speronarlo. Poi rinsavisce e si ferma, lasciando che Coverdale fugga via con il suo sogno.
Al momento, i Whitesnake non hanno una lineup e Coverdale è sotto di due milioni di dollari per aver sforato il budget faraonico concesso dalla Geffen in quei due anni di gestazione elefantiaca.
Ma Sykes lo sa che quel disco sfonderà. Perché gli ha dato la sua anima. Solo che le luci e gli allori se li prenderanno altri. E mentre Coverdale conquisterà da imperatore gli USA, monopolizzando copertine e schermi con un tour trionfale e una band nuova di pacca a far bella mostra sull’artwork di venti milioni di copie vendute nel globo (e a far finta di suonare i suoi pezzi nei tre patinatissimi video in heavy rotation), Sykes si rintanerà nell’anonimato della sala prove di suo zio a Blackpool a leccarsi le ferite, cercando nuovi soldati per riprovarci, questa volta in proprio. Ma il treno è passato e gli anni Novanta avranno altri binari.

Questa è la faida più feroce e triste del glorioso e mastodontico rock degli Ottanta, gli anni dell’espansione discografica a sette zeri e della dittatura di MTV, delle chitarre immense e delle chiome così laccate da bucare l’ozono. Triste e feroce perché l’ascia di guerra non è mai stata sepolta, se non con la morte di John Sykes, il 28 dicembre 2024; l’anno scorso, insieme a mille rimpianti.
Perché John Sykes è stato troppo. Un fulmine troppo grande per stare in una bottiglia piccola come i Tygers Of Pan Tang, gli eroi della N.W.O.B.H.M, o troppo abbagliante per non accecare di rancore l’ego da Re Sole di Coverdale. Un tuono deflagrato troppo in ritardo nell’incandescente epitaffio Thunder And Lightning per ridare una chance agli ormai defunti Thin Lizzy o convincere l’amico fraterno Lynott a continuare nel loro sodalizio Grand Slam e mollare bottiglie e aghi; fuori tempo anche per consegnare la gloria ai suoi fantastici Blue Murder, nati morti per colpa della tempesta Nirvana; troppo fragoroso finanche per non spaventare le audizioni per Ozzy, Axl Rose e Joe Elliott, più propensi a fare salire a bordo dei loro galeoni degli axemen meno straripanti e più malleabili.
Troppe sliding door bucate per non pensare: cosa diavolo ci siamo persi? Sicuramente, però, non ci siamo persi il vibrato più sexy del rock e il Tone più incandescente degli anni Ottanta, con il ruggito dello slide sulle corde basse e gli armonici stridenti a preannunciare la guerra di quell’alternative picking semplicemente brutale, sul quale svettano poi melodie da stadio e assoli stordenti.

John Sykes si è seduto al tavolo verde degli shredders del rock duro, fra Eddie Van Halen e Randy Rhoads, con il suo mazzo di carte e le sue regole, seguendo solo il tamburo del suo cuore: “Lasciate che sia la mia musica a parlare” – ha lasciato detto alla sua famiglia, prima di andarsene. Ed è sempre stato così. Anche perché trovare un’intervista di Sykes negli ultimi vent’anni è come cercare quella ad un Bigfoot. John è letteralmente sparito, sempre più insofferente al music business, alieno alla vanità social, probabilmente mai in pace con il mondo dopo quella faida, tanto da morire anonimamente, con la notizia della sua morte data addirittura un mese circa dopo i funerali, il 20 gennaio 2025.

INIZIA IL VIAGGIO
Il viaggio di John James Sykes inizia il 29 luglio 1959 a Reading, nel Berkshire britannico, ma a tre anni la famiglia si sposta a Ibiza, dove i Sykes hanno una discoteca, per poi trasferirsi a Blackpool qualche anno dopo. A quattordici anni lo zio, che gestisce una sala prove, lo avvicina ai lick di Eric Clapton e gli regala una vecchia acustica con le corde in nylon. Il passaggio ai draghi dell’elettrica è un attimo: Blackmore, Page, Moore, McLaughlin, Holdsworth, Buchanan, Schenker, Uli John Roth, illuminano John. A diciassette anni Sykes rientra in Inghilterra, ma da solo. I genitori hanno ormai le loro vite in Spagna e John va a vivere da una zia, a Blackpool. La chitarra è ormai la sua ossessione.

Gli Streetfighter dell’amico Mervyn Goldsworthy (poi bassista nei Diamond Head e nei Samson) sono la band giusta per scaricare tutta la foga giovanile di John e portare la band al proiettile She’s No Angel del 1980, con cui si guadagnano un posto nella pioneristica compilation Electric Warriors, reperto fossile della nascente N.W.O.B.H.M. che sta fomentando la gioventù proletaria del Nord England rude e operaio.

L’anno dopo (1981), il livello sale. Rispondendo a una inserzione su “Melody Maker”, Sykes entra nei capo-branco Tygers Of Pan Tang (nella Newcastle di Venom e Raven) e spara nello spazio l’imperdibile Spellbound. Dieci tracce in puro heavy metal style, di cui Gangland ed Hellbound sono i primi tuonanti colpi di cannone di Sykes... che faranno andare fuori di testa ragazzini come Lars Ulrich, James Hetfield e Marty Friedman dall’altra parte dell’Oceano: chi diavolo è quel satanasso? La MCA però fa un grosso errore e invece di promuovere in lungo e in largo quella bomba di album, rimanda in studio la band per battere il ferro finché caldo. Crazy Nights (sempre del 1981) è una guerra civile fra chi vuole un sound più radiofonico e chi vuole continuare a dare gas, e scontenta tutti. Sykes soprattutto, il quale, dopo aver innalzato la band, la affonda andando alle audizioni per Ozzy, allora alla ricerca di un erede di Rhoads, più potente di Brad Gillis. E’ il 1982.

John corre a imparare i due album di Ozzy, in attesa del visto per Los Angeles pronto da lì a tre giorni. Passano tre mesi, invece. Nell’attesa, il suo commiato alle Tigri su The Cage è soltanto nella hit Love Potion N.9 e Danger In Paradise. Alla fine, è proprio Ozzy a chiamarlo: “ti aspetto a Londra, amico!” John si sciroppa i 400 km di treno da Blackpool e dopo due ore a girarsi i pollici aspettando Ozzy, si ritrova a suonare Mr. Crowley con i Magnum (che non conoscono il pezzo!) Normalmente, sarebbe un disastro, con Sykes che prova ad insegnare alla band il pezzo sul momento, ma John è mostruoso lo stesso. La cosa rimane in standby e il giorno dopo John vola a Dublino.

THIN LIZZY
Con ancora un obbligo contrattuale con la MCA, Sykes contatta il manager delle Tigri, Chris Tsangarides, per sapere se ci sono i margini per collaborare con il suo eroe Phil Lynott... Phil accetta all’istante, proprio mentre Ozzy (o Sharon?) sceglie Jake E. Lee. Più avanti confiderà a Coverdale di aver sbagliato grosso con John.
Quello tra Sykes e Lynott non è solo un sodalizio artistico esplosivo, ma anche una simbiosi umana: il toccante singolo Please Don’t Leave Me del 1982, prelude l’ingresso di Sykes nei Lizzy a settembre, in luogo del dimissionario Snowy White. La band è a fine corsa, un ultimo giro poi sipario. John non lo sa, nessuno ha il coraggio di deluderlo ma, se si vuole chiudere col botto, di meglio, in giro, la band non può certo trovare. Il disco (Thunder And Lightning, 1982) è quasi pronto, John entra in studio sciolto come il re del mondo, saluta e si attacca al Marshall. “Fammi vedere cosa sai fare” – lo stuzzica Lynott. E parte un riff tremendo che trascina tutti in una jam di un’ora, trasformatasi nei tre minuti micidiali di Cold Sweat, uno dei più grandi successi dei Lizzy. Un riff immortale, con quegli armonici traboccanti elettricità, quel tapping orchestrato e quella outro geniale che meritoriamente il fan Dave Mustaine trasformerà nel capolavoro Tornado Of Souls, 1990.

L’impatto di Sykes è quello di un meteorite. Sbiella completamente il suono hard della band, immettendo nel suo motore tutta la sua velocità, i suoi watt, il suo Tone incandescente, rianimando i Lizzy e spingendoli oltre i propri limiti, facendo dannare il grandioso Brian Downey dietro i tamburi che deve schiacciare sull’acceleratore per stargli dietro e rendendo letteralmente tellurico il caratteristico twin-attack dei Lizzy e più epico e potente il songwriting da poeta di strada di Phyl Lynott che imbraccia il suo quattro corde.
Thunder And Lightning è il loro epitaffio heavy metal. Il tour è incendiario e offre alla supernova Sykes una platea enorme. Dominante, carismatico, avvenente e feroce, un vichingo dal viso d’angelo e il fuoco nelle dita, con la chioma d’oro a contrastare il nero pece della sua amata Gibson Black Beauty. Nessun cerone o glitter, nessuna pedaliera da nerd, zero pose da primadonna: un pantalone di pelle, una camicia aperta, il jack dritto nel Marshall e non c’è per nessuno.

WHITESNAKE
Il longo-barbuto John Kalodner, A&R della Geffen, dopo averlo visto in azione è k.o, Kalodner è il Re Mida del music business, l’uomo che ha resuscitato gli Aerosmith e che ora segue i Whitesnake, la nuova vita di David Coverdale dopo i Deep Purple.
Dopo sei album di hard blues Seventies, impeccabile ma ingessato, Coverdale negli Stati Uniti è ancora solo l’ex Deep Purple. I Whitesnake non li conosce nessuno. Intollerabile. È il 1983, Van Halen ha sdoganato le chitarre enormi e Judas Priest, Ozzy e Dio hanno piantato la Union Jack nelle classifiche americane. Conquistare gli USA è l’ossessione di Coverdale ma capisce che alla band mancano le palle di quel suono guitar-oriented. Il clima si fa tossico.
Caso vuole che il tour del loro Slide It In abbia proprio i Thin Lizzy come gruppo-spalla; Kalodner intuisce che Sykes è la benzina pesante che serve per conquistare gli States: John ha tutto il pacchetto richiesto per far esplodere il sound e l’immagine dei Serpenti. Moody, chitarrista bluesy della band, sente la pressione: “Allora prendi lui!” sbotta una sera indicando Sykes a Coverdale.
E sarà così. John non accetta subito. Adora Coverdale, Burn è uno dei suoi dischi preferiti, ma Lynott è un fratello e i Thin Lizzy sono la sua band. Alla fine, Phil gli fa capire che i Lizzy sono al capolinea e gli dà la benedizione: vai e prenditi il successo, qualcosa insieme più avanti la faremo. Non sarà così poiché Phil morirà a gennaio del 1986, devastando John.

A fine 1983 Sykes è a bordo: Coverdale coglie la palla al balzo e gli fa ri-registrare le chitarre di Slide It In nel remix per il mercato americano ordinato dalla Geffen, insoddisfatta della versione originale. L’edizione americana fa centro, il disco vende mezzo milione di copie, mentre la partecipazione al Rock In Rio del 1985 davanti 250mila spettatori consacra Sykes come colui che ha trasformato il Serpente hard blues in un Leviatano metal. E’ solo l’inizio.

La lava incandescente del suono di Sykes e la sua abbagliante esuberanza introducono i Whitesnake nel nuovo trend MTV. Aperta la breccia americana, Kalodner e Coverdale intravedono davanti a loro gli spazi immensi offerti da quell’hair metal che punta su sonorità AOR ed estetica glam. Coverdale continua a resettare la lineup: Jon Lord è tornato nei Purple, Cozy Powell ha mollato insoddisfatto della paga, Mel Galley ha i tendini lesionati: il pomposo sestetto si asciuga a quartetto, con una sezione ritmica solida (Murray al basso e Dunbar alle pelli) ma che lasci scena e spazi all’interazione fra il divo Coverdale e lo straripante Sykes.
Un pioniere della N.W.B.H.M. anni ‘80 e un drago imbevuto di Motown-sound anni ‘60 salgono sul ring dell’hair metal più patinato, pronti a sfidare Bon Jovi, Motley Crue, Poison e Ratt. Può essere un disastro come un trionfo. Sarà entrambe le cose.

Ad aprile del 1985 Coverdale e Sykes prendono a lavorare duramente al nuovo album isolandosi a Le Royal, nel sud della Francia. Il processo creativo è fruttuoso ma scorre sul filo del rasoio: Sykes non è solo uno shredder ma un autore dal senso melodico spiccato e con un suono brutale; Coverdale ha suonato con Blackmore, non è solo il frontman del Serpente Bianco ma anche il titolare, oltre che quello del contratto con la Geffen. Non c’è possibilità di sintesi.
Con Murray e Dunbar la band si trasferisce a Vancouver per registrare le basi ai Little Mountain Sound Studios, ma Coverdale non si fa mai vedere, è rintanato in hotel, nervosissimo. Neanche il disperato tentativo di cambiare location alle Bahamas, presso i Compass Point Studios di Nassau, sblocca lo stallo. Il tempo passa, il budget si sperpera e l’atteso disco del trionfo rimane in salamoia.

Come in ogni faida che si rispetti, ognuno porta la sua versione. Coverdale deve combattere una seria infezione ai seni nasali che lo debilita a lungo e dalla quale ne viene fuori con un intervento chirurgico che rischia di mettere a rischio la sua carriera e richiede una lunga convalescenza; ma, sicuramente, la sua frustrazione è acuita dallo spazio sempre maggiore che Sykes si prende in questa sua assenza, lavorando sempre più strettamente con Mike Stone, il produttore, e guidando la direzione dell’album. E Coverdale non è abituato ad avere un chitarrista che lo guarda dritto negli occhi e gli dice cosa fare...

Coverdale ha mille paranoie e vede complotti ovunque: davvero durante la sua degenza Sykes ha sibilato alla Geffen di farlo fuori? Davvero Kalodner gli ha confidato che quel fenomeno vuole levargli la band da sotto il culo? O sono solo alibi che l’invidiosissimo Coverdale inventa successivamente per giustificare il clamoroso licenziamento di Sykes? Di sicuro, quel che lo inquieta è che Sykes nei demo rivela una voce pazzesca, come dimostrerà nei suoi Blue Murder, dove sentirlo cantare le hit planetarie dei Whitesnake sarà scioccante... Il resto è storia.

Coverdale rientra, silura la band, ingaggia musicisti rigorosamente biondi, e prova a sminuire l’impronta lasciata da Sykes in sede di mix chiamando persino Dan Huff e Adrian Vandenberg a rifare le parti del super-singolo Here I Go Again (e, successivamente, Vivian Campbell quelle di Give Me All Your Love): una damnatio memoriae per fortuna arginata poi dal povero Kalodner, incredulo che quella coppia d’oro sia scoppiata subito.
Eponimo dell’anno in cui esce, 1987 appare finalmente ad aprile e consegue un successo enorme che va ben oltre i dati di vendita. Ed è John Sykes che iscrive i Whitesnake a un’altra lega, ridefinendone suono, stile e tiro (niente meno di quanto ha già fatto con i Tygers e i Lizzy), mettendo sulla mappa il suono che tutti nel 1987 vorranno avere, grazie soprattutto a Bob Rock alla console (!) e alla doppietta da manicomio che apre le danze: Still Of The Night e Bad Boys.

L’esagerato Still Of The Night è il definitivo manifesto timbrico/compositivo di Sykes. Suono aggressivo, grande potenza, e quel celeberrimo mostruoso botta-e-risposta fra la sua Gibson e il ruggito di Coverdale che sfonda le casse; in più di sei minuti, Sykes stordisce e sbalordisce con riff di lava pura, un bridge entusiasmante senza alcun ritornello, e quelle extra-notes che, rivelando gusto e feeling (ottenute con una Stratocaster), introducono l’assolo che è una cometa luminosa, prima di giungere alla progressione finale capace di far crollare le arene. Sarà davvero ridicolo vedere Campbell e Vandeberg che nel video si dividono le inquadrature fingendo che quell’inferno sia opera loro... Sfortunatamente, milioni di fan abboccheranno all’inganno di Coverdale... il quale, per replicare Sykes ha assoldato due di asce (e che asce).

Bad Boys è invece la summa dello stile esecutivo di Sykes: feroce e melodico nel riffing, funambolico e appassionato nel fraseggio, stellare ma mai eccessivo nell’assolo, là dove la ritmica portante è qualcosa di sensazionale. Ma Whitesnake vuol dire soprattutto zuccherose power ballad da sedile ribaltabile e nel super-lento Is This Love John sciorina il suo feeling in uno degli assoli più belli del decennio di allora.
Furbo e smaccatamente commerciale, 1987 sfodera una qualità eccezionale (Crying In The Rain è una palla di fuoco... ma che bolide heavy metal è Children Of The Night?) tanto che la band estrarrà ben cinque singoli di successo. Con 1987 Van Halen cede la torcia del sound metal degli ‘80 a John Sykes, ma chi se ne accorge?
Coverdale continua a dire ai quattro venti che il 95% dell’album è opera sua; che è stato lui a incoraggiare Sykes a comporre pur non essendo un autore; che Huff ha dovuto metterci mano perché tutte le chitarre erano scordate; che Still Of The Night è la rivisitazione di una vecchia idea di Blackmore e panzane del genere. John Sykes, come sempre, farà solo parlare la sua musica con i Blue Murder, la power band stellare che continua la traiettoria di 1987 del Serpente Bianco.

BLUE MURDER
Il pulsante basso fretless di Tony Franklin, i fill infiniti di Carmine Appice dietro i tamburi, la voce di Ray Gillen, la produzione dell’iconico Bob Rock, la Geffen come etichetta discografica, e Sykes che sbalordisce alla chitarra (ma anche al microfono nei demo che Kalodner vuole con la sua voce), sfociano nell’omonimo album di debutto dei Blue Murder (1989) che vende 400mila copie. Un mezzo flop per quei tempi, inspiegabile per un album che sfodera come singoli la ‘rainbowiana’ Valley Of The Kings e l’irresistibile Jelly Roll. Il grandioso Appice chioserà così: “Avevamo tutto tranne un vero management...”
Kalodner non si strappa certo la barba, visto che la speranza della Geffen è che quei due satanassi tornino insieme a macinare dollari, e visto anche che Coverdale continua sì a far girare i Whitesnake, ma senza Sykes non hanno più il tocco magico.
John, invece, subisce il colpo, convinto che la Geffen abbia sabotato i suoi Blue Murder, e si ferma, mette su famiglia e si prende tre anni per dare un seguito al debutto.
Franklin e Appice non possono certo aspettare e abbandonano, rispettivamente sostituiti da Marco Mendoza e Tommy O’Steen. Nothin’ But Trouble (1993) è un altro gran disco ma nel frattempo il mondo si è innamorato delle chitarre scordate del grunge e la Geffen li scarica.

SPARITO DAL RADAR
Sykes scioglie i Blue Murder e si rifugia nella San Fernando Valley e, dopo aver mancato l’occasione di entrare nei Def Leppard, riporta i Lizzy on the road, per poi iniziare la carriera solista di nicchia e sempre più rada; non pubblica alcun inedito per ben vent’anni e sparisce progressivamente dai radar.

Venerato dai suoi fan ma ignoto alle masse, riverito dai colleghi ma giudicato un piantagrane dai discografici; troppo pignolo nella ricerca del suono perfetto; troppo intransigente per trattare sulla sua visione musicale; troppo disilluso dal music business per farne parte; troppo lento nel dare seguito al fantasmagorico progetto Winery Dogs con Mark Portnoy e Sheenan (che poi vireranno su Richie Kotzen) o per rilasciare il pluri-annunciato ritorno con Sy-ops... Probabilmente, saziato economicamente dall’esperienza Whitesnake e già colpito vigliaccamente dalla malattia: nell’ultimo decennio Sykes è come inghiottito in un buco nero, cadendo nel dimenticatoio. Criminalmente. Perché John è l’epitome della chitarra metal anni ‘80.

LEAD & RHYTHM
John Sykes è un solista fenomenale e un chitarrista ritmico anche migliore: fluido e selvaggio, con un’espressività fortissima, figlia dell’incredibile potenza nel suonare (grazie alle sue mani induritesi nei cantieri edili di Blackpool), e con un suono da Dio Thor, unito a un blues feel inglese toccante e drammatico che lo spezia distintamente dallo swing di Van Halen o dalla musica classica di Rhoads.
E’ un chitarrista ritmico estremamente originale. Ad esempio, invece di un accordo di Sol, suona spesso un Sol5 utilizzando il pollice sulla corda del Mi basso in modo da lasciare aperta la corda del Sol. John doppia in modo singolare il suo accordo di Do (C) come un Cadd9, giustamente definito “il Do di Sykes” (che si sente chiaramente in Is This Love). Allo stesso modo, esprime spesso il suo accordo di Fa (F) come un Fsus2, fondamentalmente la triade Fa-Sol-Do con la terza sostituita dalla seconda maggiore.
Tuttavia, la maggior parte dell’estro ritmico di Sykes proviene dalla straordinaria abilità nell’alternative picking della sua mano destra. Parecchi dei suoi brani, come Holy War, Bad Boys, Billy e We All Fall Down, sfoderano complesse parti ritmiche basate su note sordinate, a corda singola e in sedicesima pizzicata, la sua caratteristica firma ritmica. Nelle vesti di cantante nei Blue Murder, Sykes strabilia per l’indipendenza con cui suona quelle rimiche mentre canta melodie e fraseggi completamente differenti.
Un altro pezzo forte di John Sykes è l’utilizzo di certe linee armoniche che puntano alla melodia, che ha affinato nel suo periodo con i Thin Lizzy, impiegandole come abbellimenti strutturali delle progressioni pulite e arpeggiate sottostanti in parecchie delle sue ballate (Is this Love o il suo duetto con Glenn Hughes in Heaven's Missing An Angel ne sono esempi eclatanti).
E cosa dire del suo furioso riffing? Basterebbe chiedere ai fan Dave Mustaine o Zakk Wylde! Anche qui il guardaroba è vasto. Hellbound è quel riff veloce in A Dorian che due anni dopo risuonerà nella Stand Up And Shout di Ronnie James Dio, con nel finale un’esecuzione a tre note della scala Am. L’enorme riff di Cold Sweat è in F#m, Bad Boys si muove tonalmente tra E Dorian e E Eolian, mentre in Billy si può avvertire la preferenza di Sykes per il double picking sulle corde basse. Il celeberrimo Still Of The Night è in chiave di F#m con una miscela molto efficace di riffing in power chord mastodontici e linee solistiche derivate dalla scala F# blues. Un riffmaster da leccarsi i baffi, come si suole dire.

Nelle vesti di solista Sykes è fuoco rapido, mira all’inguine, non al cervello. C’è tanto pathos e zero ostentazione da virtuoso. Veloce e appariscente, usa tutti i trucchi-metal degli ‘80: graffi di plettro, palm muting pesanti, falsi armonici stridenti, pull-off ad alzo zero e tapping a profusione. Un particolare marchio di fabbrica di Sykes è il far strillare il falso armonico sulla corda La, quinto tasto, e piegarlo a morte con il vibrato delle dita.
Per quanto showman vistoso, Sykes non suona eccessivamente e i suoi assoli sono avvolgenti ed emotivi, sempre in linea con il sapore del brano che suona: pentatoniche e frasi blues sono condite da elementi della scala minore come none e seste, doriche e eoliche, ma anche scale dal suono più aspro impiegate per introdurre una tensione drammatica, mescolate a sequenze tipiche del metal e da veloci passaggi del picking.

Ma John Sykes suona anche meglio lentamente, come mostrano le esecuzioni live di Still In Love With You dei Lizzy. Nei brani mid-tempo, inoltre, John inizia spesso con frasi lente e meravigliosamente melodiche per esibire il suo vibrato e il tone grasso della sua Les Paul in un crescendo infuocato (Blue Murder e Itchycoo Park ne sono esempi lampanti).

Prima che uno shredder, infine, John Sykes è un brillante songwriter. Che siano fucilate veloci e frenetiche, mastodontici carichi di riff con l’accordatura drop-D o ballad straordinariamente intime, Sykes (abile anche al pianoforte) è maestro delle dinamiche, in possesso del fantastico senso melodico che fuoriesce in tutti gli aspetti della sua musica: dalla composizione dei brani, al guitar playing, all’uso sontuoso della voce, espressiva e versatile, capace di aggiungersi alle dinamiche che caratterizzano la sua musica.

La figura di John Sykes è indissolubilmente associata alla sua Gibson Les Paul Custom Black Beauty del 1978, con il battipenna a specchio, l’hardware cromato (che sceglie su consiglio di Lynott) e un pickup Dirty Fingers con cover argentata, nella posizione al ponte.
Nel corso del tempo Sykes utilizza anche altre chitarre, Les Paul differenti, Strato e Tele, ma per la sua Black Beauty egli si butta letteralmente nel fuoco quando la seicorde rischia di finire arrosto nell’auto in fiamme dopo un incidente pauroso, divincolandosi dai vigili del fuoco che vogliono evitargli di saltare in aria.

EQUIPMENT
John Sykes suole collegarsi direttamente ai suoi Marshall JCM800 50W. Sull’album 1987 e sull’omonimo debutto dei Blue Murder, il segnale viene alimentato attraverso due Mesa/Boogie Coliseum con preamp MKIII dotato di sei valvole 6L6 da 180 watt. Oltre a questo tipo di setup, Sykes utilizza nel tempo anche Mesa/Boogie Rectifier, Mark IIC+, Mark III, oltre a EVH 5150 e 5150III, Marshall modificati da Jose Arredondo e al preamp Tri-Axis. Nel suo gear ci sono anche un Dunlop Crybaby, un Lexicon PCM-41 e un PCM-70 e un finale H&H V-800. Sykes si affida inoltre alle corde in acciaio Ernie Ball Slinky (010-046) e ai plettri Dunlop Tortex (mm 1,4).

Con questo tipo di arsenale, Sykes tira fuori il suo (imitatissimo) suono, perfetto per conformarsi al suo stile, fondamentalmente basato sulla sua Gibson Les Paul con tanto guadagno, più di Gary Moore, meno di Steve Lukather. (Proprio come Gary Moore, Sykes è abile nel silenziare la chitarra azzerando la manopola del volume, per evitare l’innesco di feedback indesiderati). Bob Rock è decisivo nel tirar fuori il suono di Sykes, aiutandolo a trovare, ai tempi di 1987, il bandolo della matassa, dopo mesi a brancolare nel buio in studio. Con Bob Rock il suono delle ritmiche di Sykes si fa sottile e “corale”. Nell’album 1987 Sykes registra quattro tracce ritmiche per brano, due per lato, mentre Rock allarga il panning left/right aggiungendo un breve ritardo su una delle tracce. In questo modo il suono guadagna profondità, diventa wet e carico di riverbero e delay negli assoli. Su quel disco fondamentale, Sykes mescola Marshall e Mesa/Boogie; nello specifico: 2x Mesa/Boogie Mark III Coliseum Blue Stripe con cab Half Back, griglia metallica e speaker 2x 12” Electro-Voice EVM 12L e 2x 12” Black Shadow MC-90 per le ritmiche, e cab Marshall 1982B con speaker 4x 12” Celestion G12M Greenback per le parti lead. Microfoni: Sennheiser MD 421, Shure SM57, Neumann U-87. Digital delay: Eventide DDL 1745.
Il guadagno dei Marshall modificati permette a Sykes di produrre con facilità tutti i suoi trucchi metal anni ‘80. Il sustain naturale della Les Paul e il tipico suono denso del suo pickup al manico (come molti chitarristi Les Paul, a John piace utilizzare il pickup al manico per gli assoli sopra il 12esimo tasto) esaltano gli assoli lenti e melodici ed anche il suo vibrato come nessun altro tipo di chitarra potrebbe fare. Sykes=vibrato! Lento, largo, uniforme e controllato, riconoscibile all’istante, soprattutto nelle ballate dove, in combinazione con il suono grasso e il sustain infinito della Les Paul, è devastante.
John Sykes si è sempre definito un underdog, sicuramente un osso duro con il quale lavorare: diffidente e riservato ma genuino e umile e grato con i fan; non si tira mai indietro a jammare o offrire una birra quando viene riconosciuto in giro.
John Sykes ha lasciato dietro sé un Himalaya di rimpianti e nostalgia. Magari anche in Coverdale; magari ripensando a cosa gli rispose Dan Huff, cooptato nei Whitesnakes per il Goodnight Fest per rifare le ritmiche di Here I Go Again: “Amico, per suonare questa roba hai bisogno di John Sykes!”



CITAZIONI

“Phil [Lynott] mi diceva sempre: “Non puoi calpestare qualcuno per sembrare più alto! Mi manca molto...” – John Sykes

“John era così potente, così intenso. Quando finiva una ripresa era sempre così rosso in faccia per lo sforzo, anche se stava seduto. Nella mia carriera ho visto solo Jimmy Page scavare davvero così a fondo con la chitarra...” – David Coverdale

“John Sykes è il miglior chitarrista con il quale abbia mai lavorato...” – Bob Rock

“I Whitesnake sono passati attraverso diversi suoni di chitarra nel corso degli anni, ma Sykes non suonava come nessun altro chitarrista lo abbia preceduto. La robustezza di quel disco [1987] e l’integrità rock erano tutte di Sykes. Sapevo che non avrei suonato come Sykes e non ci ho provato...” – Steve Vai

“John Sykes ha avuto una grande influenza su di me perché quando ho ascoltato i Tygers Of Pan Tang, ero davvero appassionato della New Wave of British Heavy Metal che era molto innovativa riguardo alla chitarra ritmica nel rock. A quel tempo c’erano ritmi davvero intriganti e gli assoli erano regolari, di base. Ma quando John Sykes è uscito con l'album Spellbound dei Tygers, è stato un punto di svolta per me. È stato il primo che mi ha fatto pensare, 'Wow, il solista può avere davvero un ruolo eccitante nel suono di una band!’ Nessun trucco o magia, ma la consapevolezza che il suono è nelle mani, e così il tocco e l’intenzione. Non appena partiva il suo assolo, il livello della canzone saliva all’improvviso. Era qualcosa che John faceva molto, molto tempo fa, prima che l’heavy metal divenisse popolare. Quindi penso che abbia lasciato un grande segno su molti chitarristi, non soltanto su di me!” – Marty Friedman




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Jeff Wagner pubblica Always Moving: The Strange Multiverse of Voïvod ed è la narrazione appassionata e appassionante del viaggio sonoro della prog metal canadese attraverso...

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Chi si chiede cosa possa dire di nuovo un leone come Van Morrison alla soglia delle ottanta candeline e con ben 47 album in studio...