STEVE MORSE Triangulation

di Francesco Sicheri
01 novembre 2025

intervista

Steve Morse Band
Steve Morse
Triangulation
Il 14 novembre 2025 segna il ritorno discografico di una leggenda della chitarra: Steve Morse. Dopo anni segnati da lutti, silenzi e una pausa necessaria dalla vita on the road, il chitarrista statunitense pubblica il nuovo Triangulation, un lavoro che sancisce una rinascita personale e artistica di rara intensità. Nove brani, nove episodi che tracciano la mappa sonora e umana di un musicista che ha attraversato ogni confine possibile con la propria chitarra: dal jazz-rock dei Dixie Dregs al rock da stadio dei Deep Purple, dalle raffinatezze sinfoniche dei Flying Colors alle pagine più intime della Steve Morse Band.

Chi conosce la carriera di Morse sa che non c’è mai stato un momento di vera immobilità nella sua musica. Dalla metà degli anni ’70, quando con i Dixie Dregs rivoluzionava il concetto stesso di fusione tra rock, jazz e classica, fino alla consacrazione con i Deep Purple – di cui è stato per quasi trent’anni il chitarrista più longevo – Morse ha incarnato l’essenza stessa del chitarrista moderno: tecnico, melodico, capace di scrivere linee memorabili ma anche di far parlare la chitarra come un’anima viva. Oggi, dopo la perdita della moglie Janine nel 2024 e un periodo di...

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riflessione profonda, Triangulation rappresenta il punto d’incontro tra passato, presente e futuro.

Il titolo, Triangulation, deriva dal concetto utilizzato da navigatori e aviatori per determinare la propria posizione attraverso due punti di riferimento. Una metafora che descrive alla perfezione la condizione esistenziale di Morse: un uomo che guarda indietro e avanti contemporaneamente, cercando di capire dove si trova ora, dopo un lungo viaggio tra la gloria e la fragilità umana. “Il concetto di triangolazione può essere applicato a molti problemi della vita” – spiega Steve – “Sulla copertina, la figura umana cerca di abbattere un muro, osservando i metodi usati dagli altri due esseri per liberarsene. È un’immagine che parla di evoluzione, di consapevolezza. E poi, naturalmente, siamo un trio, quindi il titolo calzava a pennello.”

Il disco riunisce la formazione storica della Steve Morse Band, con Dave LaRue al basso e Van Romaine alla batteria, e vede la partecipazione di ospiti straordinari come Eric Johnson, John Petrucci, Scott Sim, Angel Vivaldi e Kevin Morse, figlio di Steve, che suona in uno dei momenti più toccanti dell’album, Taken By An Angel, un tributo struggente a Janine, compagna di una vita, musa e presenza costante dietro le quinte di ogni tour. “Quel brano è nuovo territorio per me...” –racconta Morse – “È nato per la cerimonia in memoria di mia moglie, con mio figlio Kevin alla chitarra. L’ho poi sviluppato, ricercando suoni capaci di raccontare l’angoscia, la speranza e infine la pace. È la storia di un’anima che attraversa la soglia verso un mondo migliore...”

Accanto a momenti di commozione profonda, Triangulation mostra anche il Morse più libero e sperimentale: brani come The Unexpected si muovono tra la sinfonia e l’improvvisazione, March Of The Nomads fa incontrare le chitarre elettriche con le cornamuse di Scott Sim, mentre Tumeni Partz riprende e reinventa il celebre Tumeni Notes del 1989, in un gioco di incastri e variazioni che solo un compositore della sua esperienza poteva concepire.

Nel nuovo album convivono melodia e complessità, virtuosismo e introspezione. Morse stesso spiega come la sua scrittura sia ormai guidata da una ricerca di equilibrio più che di velocità o spettacolarità: “Penso che le melodie debbano essere memorabili, l’armonia mai scontata. Mi piace che ogni pezzo abbia una logica interna, un dialogo tra chitarra e basso, come un duetto tra strumenti classici. È lì che la musica vive davvero.” Dopo aver attraversato decenni di rock progressivo, fusion, metal e acustico, Triangulation suona come un album capace di racchiudere tutto ciò che Steve Morse è stato e tutto ciò che ancora sarà: un viaggio musicale che parla di resilienza, amore e libertà creativa. “Non so se questo disco cambierà il modo in cui scriverò in futuro...” – dice con la consueta modestia – “ma so che continuerò a sperimentare. Non mi considero un professionista, ma un appassionato: qualcuno che suona perché deve farlo, perché è il suo modo di respirare.”

Dopo il dolore, dopo il silenzio, Triangulation è il ritorno di un uomo che non ha mai smesso di cercare il suono perfetto. Un album che conferma, ancora una volta, perché il nome di Steve Morse è tra quelli che generano sempre grande emozione e fermento.

Steve Morse Band 2025 – Steve Morse (guitar) – Dave LaRue (bass) – Van Romaine (drum)

Ciao Steve, è un piacere sentirti! Come stai?
Beh, i concerti stanno andando bene. Sì, anche se le giornate sono piene di stress: bisogna arrivare in tempo, fare interviste, trovare il momento per una doccia, un pasto decente o per esercitarsi… o dormire. Ogni giorno puoi scegliere più o meno solo due di queste cose.

Eppure sei ancora disposto a fare interviste come questa. Dopo tutti questi anni non ti sei stancato? Non ti pesa continuare a raccontarti, rispondere, ripetere?
Sono stanco, sì. Lo puoi vedere dalla mia faccia. Se potessi guardarmi negli occhi, lo capiresti davvero… Ma resta qualcosa di importante.

È per questo che continui a farlo?
Siamo in missione, una di quelle importanti. Ogni sedici anni facciamo un nuovo album! [ride]

Beh, se prometti che continuerete così ogni sedici anni, per noi va bene!
Certo! Tra sedici anni ne farò uno dedicato a… la mobilità, le sedie a rotelle elettriche, i deambulatori e cose del genere. Sì, un po’ come i Beach Boys che cantavano di tavole da surf e macchine veloci. Solo che il nostro [Steve Morse Band] sarà tutto dedicato alle apparecchiature mediche!

Ascoltando il disco ci si ritrova davanti a un grande ritorno. Ma, allo stesso tempo, non dà affatto l’impressione che tu abbia perso il ritmo.
Ne sono felice. Anche noi ci sentiamo bene riguardo a questo lavoro. L’album è diverso per diversi aspetti: ci sono dei duetti strumentali, per esempio, con Eric Johnson e John Petrucci. E poi c’è il brano più lungo che abbiamo mai registrato, quasi undici minuti. Forse con troppi passaggi [ride] ma sentiamo che scorre bene, ha un suo flusso naturale. Naturalmente, c’è anche un pezzo molto speciale, personale, alla fine dell’album, una di quelle cose che nella vita capita di fare una sola volta, davvero unica. Quindi, sì... è un album davvero speciale per me.

Come sono nati i brani di un album così emotivamente carico? Come hai affrontato questo nuovo disco da un punto di vista personale, dopo tutto quello che hai vissuto?
La musica è una forza guaritrice, un linguaggio universale che unisce tutte le persone. È qualcosa a cui dovremmo rivolgerci quando abbiamo dei problemi, invece di rifugiarci su Facebook, Instagram o altre distrazioni. Per me la musica è una sfida che non riuscirò mai a conquistare del tutto, ma è anche incredibilmente gratificante quando riesci a trovare qualcosa che funziona, che vibra nel modo giusto. Così la musica è semplicemente diventata parte della mia vita. Ho capito, già molto tempo fa, che non sarei mai stato parte del sistema dell’industria musicale e questo toglie un certo tipo di pressione, perché non vivi più con quella sensazione di dover fare qualcosa a tutti i costi, altrimenti la tua carriera è finita. Per me la musica deve semplicemente essere ciò che è. Farla al tuo meglio, senza metterti a inseguire quello che le etichette discografiche vorrebbero. Anche se, devo dire, la mia etichetta attuale, la Mascot, è fantastica. Mi hanno semplicemente detto: “Fai quello che senti, è il tuo disco, la tua visione. Solo… assicurati che sia bello.”

Sul piano strettamente legato alla composizione, cosa significa per te fare qualcosa di “bello” a questo punto della tua carriera?
Penso che le melodie debbano essere memorabili e che l’armonia non debba essere convenzionale, mai scontata. Niente cliché, insomma. Mi piace inserire dei contrappunti, dei movimenti inaspettati. Uno dei tratti distintivi dei nostri dischi è che le linee di basso sono sempre molto impegnative, piene di movimento e di varietà. Dave [LaRue] non si limita ad accompagnare con il suo basso: fa assoli, melodie, arpeggi, parti funk suonate in slap, linee di walking bass, swing, veloci pattern rock in ottavi. Fa tutto questo ed è una parte enorme del suono della nostra band. Quindi, parte della sfida sta nel trovare idee che piacciano a lui. Dave siede accanto a me quando lavoriamo insieme e spesso funziona così: io arrivo con un’idea e dico: “vediamo se ti piace, Dave.” La suoniamo insieme e da lì posso rifinire le parti di chitarra per adattarle alle sue. La spina dorsale di ogni brano nasce proprio da questo dialogo a due voci: basso e chitarra, come se scrivessi un duetto per violoncello e viola o violino. Dave saprebbe farlo anche nel sonno e il risultato sarebbe comunque fantastico, nel senso che entrambe le melodie funzionano e hanno senso anche da sole. Non devono esserci cambi di tensione troppo drastici, incoerenti con l’insieme. Per esempio: se stai suonando in modo tonale, con tutte le note all’interno della scala, e all’improvviso inserisci un accordo che non c’entra, quel momento a me risulta fastidioso, disturbante. Non ha senso, a meno che tu non stia lavorando volutamente con accordi dissonanti, come potrebbe essere l’Hendrix Chord [dominante con nona aumentata o diminuita] o come lo vuoi chiamare. Se lavori con una serie di accordi dissonanti mantenendo un equilibrio costante nel livello di dissonanza, quello diventa accettabile. Puoi fare la stessa cosa anche con le melodie, purché il grado di tensione resti coerente con l’atmosfera del pezzo.

In pratica stai parlando di creare… una certa tensione tra la narrazione delle melodie e l’armonia, giusto?
Beh, sì... oppure di non crearla, dipende tutto dal brano. L’unico momento in cui mi piace introdurre un po’ di tensione in un pezzo tonale è quando questa serve a spingerti verso una nuova tonalità… qualcosa del genere. Oppure quando deve portarti verso il climax di una sezione. Come un segno di punteggiatura. Come qualcosa che crea lo spazio per far accadere qualcos’altro, o magari per spostarsi in una nuova parte del brano. Esatto. Ma se in mezzo a una frase ti compare una dissonanza senza motivo, per me quello è il segnale che qualcosa non funziona. [ride]

E’ interessante l’idea di evitare elementi dissonanti, visto che parecchi compositori oggi li associano al concetto di complessità. Al proposito, come è cambiato per te il concetto stesso di complessità, nel corso del tempo? Perché in questo disco ci sono brani molto complessi, stratificati...
Esatto. Per me, un buon livello di complessità significa creare qualcosa che suona bene ma che, allo stesso tempo, ti porta in una nuova sezione in modo inaspettato, non convenzionale. Mi piace cambiare tonalità in determinati momenti della composizione, ma quei cambi devono avvenire in modo naturale, non forzato. Non puoi spingere la musica come con un martello. Ecco, per me questo è il punto.

Come si applica tutto questo al suonare la chitarra, nello specifico?
Con la chitarra non è un problema enorme, se non per il fatto che man mano che ti sposti verso tonalità più insolite, come il mi bemolle, per esempio, perdi le corde a vuoto. Ma la vera complessità è sul piano compositivo: cambiare tonalità mantenendo un’interazione viva tra gli strumenti, evitando che tutti suonino semplicemente accordi a-blocchi. Sai, se stai accompagnando un cantante puoi anche cavartela così, magari non è particolarmente interessante, ma funziona. Ma in un disco strumentale, no. Non puoi permettertelo. O almeno, io penso che noi non possiamo: dobbiamo aggiungere un livello di profondità ulteriore.

Parlando di musica strumentale, possiamo chiederti su quali elementi ti affidi quando devi trasmettere un messaggio? Perché, ovviamente, non ci sono parole e non puoi spiegare in quel modo di cosa parla un brano. Quindi su cosa ti basi? Sul groove? Sulla melodia, certo, ma… in che misura? Quanto conta l’uno e quanto l’altra per esprimerti senza parole?
Beh… prendiamo ad esempio l’ultimo brano del disco, Taken By An Angel. È quello che più di tutti racconta un’emozione, una storia, senza bisogno di testo. La prima scena è ambientata nel cuore della notte, quando ogni speranza sembra perduta. Tutti se ne sono andati. Anche le infermiere dell’ospedale sanno cosa sta accadendo e ti lasciano solo. I secondi scorrono lentissimi. In quel momento ho scelto una melodia in minore, morbida ma scandita da un ritmo lento, suonata con la chitarra classica. Poi entra la scena successiva: mio figlio che suona la chitarra acustica. I suoi accordi larghi e ariosi, arpeggiati con calma, fanno respirare la musica. Forniscono un aspetto diverso della stessa emozione, eppure con energia, come una luce che si riaccende piano. Poi arriva la terza parte e qui entrano le parti degli archi suonate con un sintetizzatore, mentre la melodia principale è condivisa tra chitarra pulita e chitarra classica. La chitarra acustica continua a tessere il suo movimento regolare, mentre la melodia in minore inizia a intrecciarsi con contro-melodie che salgono sempre più in alto, creando un crescendo emotivo.
Quelle contro-melodie sono suonate con chitarre distorte in registri altissimi, talmente alti che devi ricorrere agli armonici artificiali. E così, piano piano, tutto va a sfociare in una cadenza finale, un accordo che quasi urla, prima dell’ultimo respiro. Poi, all’improvviso, un atterraggio dolce, su un accordo che potrebbe essere maggiore, ma è volutamente ambiguo. L’intero brano cresce in un climax che rappresenta la speranza di un’esistenza migliore per l’anima che ha appena lasciato questa Terra. Una persona che era, letteralmente, la mia anima gemella. È un pezzo intensissimo. Per ottenere quella intensità, ho spinto la musica sempre più in alto, aggiungendo elementi, stratificando, lasciando che la chitarra si facesse più tormentata, quasi dolorosa. C’è un grido nel suono, un’urgenza che non si spegne, e nell’ultima parte il brano modula di un tono verso l’alto, per ripetere la melodia con una tensione ancora maggiore. Ah... e c’è anche un dettaglio all’inizio: un suono spettrale, simile a un oboe, che ho ottenuto tenendo una nota sulle corde grazie a un sustainer esterno. Serve a imprimere subito quell’atmosfera di solitudine, di speranza sospesa, di calma quasi irreale. È una voce che non parla, ma racconta tutto. Come dicevo, ci sono altri piccoli particolari dentro quel pezzo, ma questi sono quelli che mi vengono in mente ora.

Pensi che la realizzazione di questo disco e il significato che porta con sé, abbiano cambiato in qualche modo il tuo modo di fare musica d’ora in avanti?
Non lo so. Penso che continuerò semplicemente come ho sempre fatto: sperimentando, cercando, senza preoccuparmi troppo di essere… diciamo, un professionista nel senso stretto del termine. [ride] Mi considero più un compositore amatoriale, uno di quelli di cui senti parlare quando fa qualcosa di nuovo.

Ti senti quindi più libero di esplorare, perché non hai quella pressione addosso?
Sì, decisamente. Ho diversi progetti davanti a me, diversi lavori per cui scrivere. Devo riuscire a tirar fuori qualcosa di buono, in un modo o nell’altro. Non so ancora come, ma lo farò. E, come dicevo, la mia vita non dipende da questo. La mia famiglia, quel che ne resta, mangerà comunque, che io scriva musica o meno. Quindi, sì, la mancanza di pressione per me è un vantaggio. In realtà un po’ ce n’è stata durante la realizzazione dell’album, ma mi ha aiutato a chiudere il cerchio, a dare una forma definitiva alle cose. Ma non è stata una pressione opprimente.

Considerando tutto quello che hai detto finora, e con questo nuovo disco ormai pronto per uscire nel mondo, pensi di essere un artista diverso rispetto al giovane Steve Morse che iniziava a fare musica? E in che modo?
Oh sì, assolutamente. Avere oggi più padronanza tecnica sotto le dita significa poter scrivere cose più complesse, più velocemente, che si adattano naturalmente alla mano. Ma credo di essere diventato anche un compositore migliore. Ora scrivo pezzi che, a volte, le mie dita non riescono a suonare facilmente, perché sono più consapevole della melodia e, soprattutto, della necessità di contenersi. Sai, la pazienza che arriva dopo settant’anni passati su questa Terra aiuta molto nella scrittura. Ora so che, se qualcosa non mi convince del tutto, posso trovarne la soluzione. Non devo accontentarmi di quel piccolo dettaglio che mi disturba: posso aggiustarlo, cambiarlo, riscriverlo finché non è come deve essere.

Pensi che porterai questo nuovo disco in tour in Italia o in Europa, presto?
Eh, non lo so. Al momento abbiamo pensato di concentrarci sugli Stati Uniti, ma sappiamo bene che in Europa c’è il miglior pubblico del mondo: appassionati, attenti, competenti. Anche in Giappone, devo dire, ci sono ascoltatori molto preparati, ma in Europa, e specialmente in Italia, c’è una passione diversa, autentica. L’unica cosa è capire se riusciremo a farlo, considerando gli impegni e i progetti che ognuno di noi ha negli Stati Uniti. Al momento, è questo il punto interrogativo.

Beh... tu sai che i fan italiani sono sempre pronti ad accoglierti con grande entusiasmo...

Grazie di cuore. Amo venire in Italia. E, sapete, ho imparato a conoscere bene il vostro Paese grazie ai lunghi tour con i Deep Purple. Ho una profonda ammirazione per la vostra cultura e per la vostra gente.

Steve, in questo momento sei in viaggio, quindi grazie per aver trovato il tempo di fare questa chiacchierata con noi...
Grazie a voi, lo apprezzo davvero. A presto!

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