ALICE COOPER BAND "The Revenge Of Alice Cooper"

di Francesco Sicheri
01 giugno 2025
Il 25 luglio 2025, su earMUSIC, esce The Revenge Of Alice Cooper, il nuovo, attesissimo album realizzato dalla lineup originale della band che ha ridefinito il concetto stesso di shock-rock. Alice Cooper, Michael Bruce, Dennis Dunaway e Neal Smith tornano in studio insieme dopo oltre cinquant’anni per dare vita a un lavoro che non è solo un disco, ma un manifesto: un ponte elettrico tra la teatralità sfrontata degli anni ‘70 e l’urgenza espressiva di oggi.

The Revenge Of Alice Cooper è il disco che celebra la reunion della Alice Cooper Band delle origini. E’ un ritorno che ha il sapore del rito, del richiamo alle origini, e che arriva dopo decenni di carriere parallele, reunion episodiche e tante pagine di storia scritte da ciascun componente della band, Cooper su tutti.
Il primo singolo, Black Mamba, chiama a sé anche la partecipazione di Robby Krieger dei Doors e non lascia dubbi sulle intenzioni: il morso è ancora velenoso, il groove ancora letale. Ma è What Happened To You – il brano che include una registrazione inedita di Glen Buxton, scomparso nel 1997 – a commuovere e far riflettere, mettendo in musica quel sentimento di fratellanza che ha sempre...

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legato la band, anche nei silenzi più lunghi.

Nelle righe che seguono è riportato quello che ci ha raccontato Michael Bruce – chitarrista ritmico e autore di molti dei brani simbolo della band di Cooper, da Be My Lover a Caught In A Dream – il quale ci ha accompagnato in un viaggio che attraversa i decenni: dagli esordi nei locali di Phoenix all’incontro con Bob Ezrin, dall’esplosione di School’s Out e Billion Dollar Babies alla lenta separazione che portò a Welcome To My Nightmare. E poi ancora: l’evoluzione del suo approccio alla chitarra, le trasformazioni del suo rig, il modo in cui scrive e sente la musica oggi.

Ma The Revenge Of Alice Cooper non è un’operazione nostalgia. È un album vivo, che respira rock’n’roll autentico, registrato in uno studio “alla vecchia maniera” nel Connecticut statunitense, dove “gli Alice Cooper originali” hanno ritrovato, insieme allo storico produttore Bob Ezrin, il suono e la magia che li ha resi immortali.
E sì, Michael Bruce suona ancora come se fosse il 1971, ma con la consapevolezza – e l’ironia – di chi ha attraversato l’inferno del rock… ed è tornato per raccontarlo.

Alice Cooper (vocal) – Michael Bruce (rhythm guitar) – Dennis Dunaway (bass) – Neal Smith (drum)

Michael, è un piacere incontrarti, grazie per aver trovato il tempo per questa chiacchierata.
Il piacere è mio.

Come stai? Come ti sta trattando la vita ultimamente?
Va bene, sì. A parte la solita confusione sul piano politico, direi che tutto fila liscio. È un periodo complicato un po’ dappertutto, sembra.

E invece eccoci qui, nel 2025, a parlare di un nuovo disco firmato dalla Alice Cooper Band delle origini...
Già. Chi l’avrebbe mai detto.

Ci è voluto un po’, eh?
Cinquantuno anni, per la precisione. Curioso, no? Ci accomuna con la diga di Hoover: anch’essa ha impiegato 51 anni per ripagarsi da sola. Un bel parallelo! [ride]

Com’è stato mettersi di nuovo insieme per questo nuovo progetto? Che tipo di sensazioni hai provato nel lavorare su The Revenge Of Alice Cooper?
All’inizio per me è stato un po’ scoraggiante, anche solo salire su un aereo dopo tanto tempo. Però, una volta arrivato, è andato tutto alla grande. Le sessioni in studio [nel Connecticut] sono state fantastiche. Ho avuto solo un piccolo problema tecnico: non ho potuto portare il mio amplificatore e mi sono dovuto arrangiare con quel che c’era sul posto. Poi, tornato in Arizona, ho ri-registrato le mie parti con Clark Rigsby, che lavora con l’università statale. È venuto fuori tutto molto bene. Mi sono davvero divertito a suonare i pezzi scritti da Bob [Ezrin] e poi mi ha anche lasciato cantare Famous Face. Avete già ascoltato l’album?

Sì, l’abbiamo ascoltato in questi giorni...
Ottimo! Per quel brano [Famous Face] ho registrato la voce lead, mentre Alice ha fatto i cori. Ha fatto un gran lavoro. In realtà, tutti hanno dato il massimo. Neal [Smith] e Dennis [Dunaway] sono stati fenomenali, e Bob [Ezrin] è stato super attento, si è assicurato che tutto fosse al suo posto. Abbiamo fatto due o tre take per ogni brano, fino a trovare quella giusta. Con noi c’era anche Rick Tedesco [lead guitar] che ha preso il posto che fu di Glen [Buxton]. Una volta trovato il feeling, il resto è venuto da sé. Dopo tutto questo tempo, devo dire che è stato bellissimo!

Hai sentito pressione nel tornare a lavorare in questo modo dopo tanti anni?
No, per niente. In realtà stavamo arrivando al disco gradualmente. Eravamo già apparsi nel sequel di Welcome To My Nightmare [2015], in Paranormal [2018], e in alcuni altri brani dei dischi di Alice [Cooper]. Insomma, c’è sempre stato un filo che ci teneva legati. Quando Alice è venuto qui a Tucson [Arizona] un paio di mesi fa, io e mia moglie siamo andati al concerto e sono salito sul palco a suonare con lui School’s Out [la hit del 1972] e anche la parte di chitarra di Another Brick In The Wall. Il pubblico mi ha accolto con calore, ero sorpreso. Non pensavo si ricordassero ancora di me. Alice mi ha anche messo il cilindro in testa, e quando ha detto il mio nome la gente ha esultato. Poi ho pensato di lanciare il cappello al pubblico, ma alla fine l’ho restituito. Dopo Alice mi ha detto: “Meno male! Era l’unico che avevo!” [ride]

Come sono nati i pezzi di The Revenge Of Alice Cooper? Il tuo approccio alla composizione è cambiato negli anni?
In parte sì. Di solito lavoro nel mio piccolo studio di casa. Bob [Ezrin] mi ha mandato gli stems, le tracce, e con quelle ho iniziato a prepararmi per andare da Clark Rigsby, nel suo studio a Tempe. Lì ho riregistrato tutto come si deve. Prima avevo suonato con un Marshall Slash 4x12” e il suono era un po’ impastato. Il bello è che sapevo di poter rifare le parti, ed è stato un grande vantaggio. Per Famous Face abbiamo registrato anche delle percussioni con mia moglie e un paio di amici: Tom Booth e AD Adams, entrambi batteristi. È stato tutto molto naturale e fluido. Bob mi ha lasciato carta bianca e mi sono potuto esprimere liberamente. Per gli altri brani del disco ho seguito le strutture già definite, credo scritte da Gacy – spero si pronunci così [Gyasi Heus, lead guitar]. Ho solo adattato alcune uscite o entrate della chitarra, ma niente di complicato. Dennis e Neil hanno scritto cose splendide: alcuni pezzi vengono dal repertorio dei Flying Tigers, la band che avevano loro due. Brani come Blood On The Sun o See You On The Other Side sono davvero forti.

La tracklist sfodera quattordici brani, ce n’è uno che prediligi su tutti?
Mi piace parecchio Crap That Gets In The Way Of Your Dreams e so che piace molto anche ad Alice, e Inter Galactic Vagabond Blues. Naturalmente, anche Money Screams e Black Mamba. Questi due li abbiamo iniziati io e Neil [Smith] al Solid Rock. Poi è arrivato anche Alice e abbiamo continuato a lavorarci sopra insieme. Dennis [Dunaway] si è aggiunto dopo, e a quel punto le canzoni hanno preso forma. Dopo di che, io e Linda siamo tornati a Stanford, nel Connecticut, dove abbiamo registrato in uno studio fantastico. E’ stato bello tornare lì, anche se ormai preferisco il clima secco dell’Arizona.

La Alice Cooper Band è nata nel 1968 a Phoenix, in Arizona, come sei arrivato a farne parte?
Una storia lunga. Tutto è cominciato in un evento che si chiamava “Clash of the Combos”, dentro un centro commerciale. Ogni scuola mandava una band e noi rappresentavamo una scuola che non era la nostra perché rappresentata già da un’altra band. Abbiamo perso nella finale ma abbiamo fatto un figurone. In realtà, avevano portato via le urne delle votazioni mentre noi suonavamo... insomma, la vittoria era già stata decretata. In tutti i casi, avevamo messo delle bobine per i cavi elettrici come pedane e le avevo decorate con la carta crespa... sembrava lo show di Ed Sullivan! E’ lì che i membri degli Spiders [in cui vi era Alice Cooper] mi hanno notato. Poi John Tatum ha lasciato la band e io ho fatto l’audizione. Da lì è partito tutto.

Prima però ti avevano ingaggiato come roadie, corretto?
Esatto! Mi avevano chiesto di aiutarli con l’attrezzatura. Poi ho suonato con loro qualche volta ... e improvvisamente ero diventato il secondo chitarrista.

Ricordi com’è nata la volontà di scrivere brani vostri?
Certo. Ricordo di aver detto a Dennis: “Amo suonare i pezzi degli altri, ma se non ne scriviamo di nostri, nessuno lo farà per noi!” Così abbiamo iniziato a lavorare in tal senso. Non è stato un processo immediato: facevamo avanti e indietro tra l’Arizona e la California, e nei concerti proponevamo un solo set di brani nostri. Poi due, poi tre, fino a suonare quattro set di brani completamente nostri.

Poi ci sono stati dei momenti complicati per la band, no?
Eh sì. Il nostro primo batterista, John Speer, aveva un brutto carattere, anche se andava d’accordo con me. Un giorno, dopo le prove a casa dei genitori di Glen [Buxton], mentre tutti ci salutavamo, John cominciò a sussurrare cose fastidiose a Dennis [Dunaway]. Lo faceva apposta per provocarlo. A un certo punto, Dennis si è alzato in silenzio, ha posato la chitarra e gli è saltato addosso. Una rissa in piena regola, tra piatti che cadevano e genitori coinvolti nel caos. Lo stesso è successo a casa di Alice, dove sua madre ci ha vietato di fare ulteriori prove dopo che un alone sospetto era comparso sul divano in pelle coperto dalla plastica.

E a casa tua vi lasciavano suonare liberamente?
Sì, fortunatamente. Mia madre era stata una cantante per le truppe durante la guerra, con Steve Allen al piano prima che andasse a Hollywood. Quando rimase incinta di me dovette abbandonare la carriera, ma ha sempre sostenuto la mia. Anche mio padre, che lavorava alla Coca Cola, ne era molto orgoglioso. Dopo anni, l’ho aiutato a ritirarsi e abbiamo preso a gestire insieme degli appartamenti.

E i tuoi fratelli?
Mio fratello Paul era molto talentuoso, sembrava Michael Landon, suonava e cantava. Ma, poco dopo una brutta storia sentimentale, è finita tragicamente: è stato investito da un guidatore ubriaco. Mio fratello David, invece, lavora ancora con le orchestre sinfoniche a Phoenix e ha anche collaborato con Alice [Cooper] quando ha aperto per i Rolling Stones. Oggi è mia moglie Lynn che si prende cura di me: abbiamo un gruppo, lei suona il basso e ci esibiamo in giro per l’Arizona.

Torniamo a The Revenge Of Alice Cooper... certo è che l’assenza di Glen Buxton si fa sentire, ma lo avete omaggiato nel brano Whatever Happened To You, giusto?
Sì, proprio così. Glen era una figura unica. Amava Chet Atkins, ma sapeva suonare anche come Jeff Beck e Jimmy Page. Era un ottimo chitarrista. All’inizio, era lui a mostrare alla band certi accordi... Quando ci siamo spostati in California, abbiamo avuto un brutto incidente col furgone e siamo rotolati tre volte. Solo la moquette sopra l’attrezzatura ci ha salvato.

È stato lì che vi siete sentiti “rinati” come band?
Esattamente. Era come se la vecchia band fosse morta e ne fosse nata una nuova. Avevamo già dovuto cambiare il nome, passando da The Spiders a The Nazz. Ma quando Todd Rundgren venne fuori con la sua band omonima, dovemmo rinunciare anche a quello.

Ed è qui che entra in scena la Tavoletta Ouija…
Proprio così. Una sera, a casa del nostro road manager, Alice ci raccontò di una strega di nome Alice Cooper, mandata al rogo seppur innocente. La storia ci colpì parecchio e la sera dopo eravamo tutti d’accordo: quel nome era perfetto per noi. Eravamo giovani, magri, con i capelli lunghi. La band aveva una nuova identità.

Poi è arrivato l’incontro con Frank Zappa...
Sì, Miss Christine ci fece conoscere Frank. Ci aveva invitato per poterci ascoltare, dandoci come orario semplicemente “le sei”. Noi pensavamo che volesse ascoltarci alle sei di mattina, ma in realtà lui intendeva alle sei di sera! Quando ci vide arrivare così presto, fu sorpreso ma colpito dalla determinazione, e ci fece firmare un contratto. Abbiamo registrato due dischi con lui, poi siamo passati alla Warner.

Glen, in tutto questo?
Glen [Buxton] era parte integrante del tutto. Ma la sfortuna lo colpì a New York, quando gli rubarono prima la chitarra, poi anche la valigia. Per lui fu devastante: diceva che senza quella chitarra aveva perso il suono e anche l’immagine. Era bravissimo a suonare e re-interpretare i brani degli altri, ma con i brani nostri faceva fatica. Iniziammo quindi a lavorare insieme su parti armonizzate e lunghe note sostenute, come su Killer...

Ma non era più lo stesso Glen probabilmente…
Sì, era diverso. Arrivava in ritardo, con la testa era spesso distante e alla fine, io, Alice e Neil andammo a casa sua per chiedergli di prendersi una pausa e rimettersi in forma. Aveva bisogno di ritrovare sé stesso.

Eppure l’inizio fu dirompente...
Sì, ricordo che i brani del primo album [Alice Cooper, 1972] duravano a malapena un minuto e mezzo. Un critico scrisse che ascoltarlo era come assistere a una jam session in un manicomio. Mi sembrò una descrizione perfetta.

Poi nel 1974 è arrivato Billion Dollar Babies…
Sì, abbiamo iniziato a lavorarci su nel Connecticut, per completarlo a New York e poi a Londra. Lì abbiamo incontrato Donovan e Marc Bolan dei T. Rex. Donovan ci prestò la sua acustica con una mezza luna scolpita come buca armonica e registrammo insieme delle parti vocali.

E Glen?
Glen arrivò tardi, come al solito. Portava sempre con sé sigarette, bibite, amuleti. Si sentiva arrivare da lontano per tutti i ciondoli che aveva addosso. Quando fu il suo turno di registrare, Bob [Ezrin] mandò qualcuno a incartargli tutti i gioielli per evitare rumori nei microfoni. Era così: un po’ difficile da gestire, ma aveva un cuore grande.

È vero che alternava momenti buoni a fasi di forte frustrazione?
Sì, succedeva spesso. Ricordo l’ultimo concerto che abbiamo fatto insieme: era dopo Billion Dollar Babies. Avevamo deciso di prenderci una pausa. Io vivevo in Texas allora e c’era un locale molto popolare, Area 51. Neal [Smith] venne a trovarmi e Glen arrivò dallo Iowa, dove si trovava in quel periodo. Il suo medico lo aveva avvertito: “Se vai sulla costa, presta attenzione. L’aria e l’umidità portano con sé virus e agenti esterni pericolosi.” E, a quanto pare, qualcosa si era davvero annidato nel suo sistema. Una settimana dopo quel concerto, ricevemmo una telefonata: Glen era morto. Aveva contratto una polmonite che gli aveva attaccato il cuore.

Non aveva preso precauzioni?
No, per niente. Non amava i medici, non sopportava l’idea di andare in un ambulatorio. Persino la sua compagna, che era una infermiera, non riusciva a convincerlo a curarsi. Così lo abbiamo perso.

Deve essere stato un colpo durissimo...
Sì. Glen era un amico caro, anche se a volte si arrabbiava col mondo intero, noi compresi. Era un tipo alla Syd Barrett dei Pink Floyd, se vuoi. Quando qualcosa lo turbava, si chiudeva. A volte, durante i live, non entrava nell’assolo finale, o lo anticipava. Cominciava a non funzionare più, soprattutto sul palco. Alla fine di Billion Dollar Babies, quando ci siamo fermati per un anno, io, Neil e Alice siamo andati a casa sua per proporgli di prendersi una pausa con stipendio pieno, per poi tornare quando si fosse sentito meglio. Ma lui rifiutò. Era molto testardo.

E quindi lasciò il Connecticut?
Sì, se ne andò in Arizona. Poco dopo, apparve sulla copertina del New Times Magazine. Si era pettinato all’indietro, con uno stile un po’ da ragazzino di strada. Il titolo? “Sono vergine.” Non era proprio vero… ma faceva parte del personaggio. Aveva formato una band e suonavano nella zona. Avevano anche un certo seguito. Da lì in avanti non lo abbiamo più “ripreso”.

Michael, che dire… ti ringraziamo per aver ripercorso con noi alcuni dei momenti più importanti della tua carriera con la Alice Copper Band. È stato un piacere e un onore ascoltare i tuoi racconti.
Sono io a ringraziarvi. È molto bello essere ancora qui a fare questo mestiere, ma soprattutto è bello essere tornato a fare musica con Alice e gli altri. Anche Glen è con noi, non fisicamente, ma è comunque presente.

Speriamo di rivederti presto Michael.
Lo spero tanto anche io. Statemi bene.