BILL FRISELL Four

di Francesco Sicheri
02 dicembre 2022

intervista

BIll Frisell
BIll Frisell
Four
Una vita spesa in favore della ricerca artistica e musicale. La chitarra per Bill Frisell è un mezzo di esplorazione, una sorta di compagna di viaggio in quell’incredibile missione che da anni lo porta a sviscerare i meandri più reconditi dell’espressività sonora. Four (Blue Note) è il nuovo capitolo di quel viaggio iniziato nell’ormai lontano 1983 con In Line.  

Classe 1951, Bill Frisell è uno dei nomi più altisonanti della chitarra jazz, eppure parlando con lui per un’ora potreste non incappare mai in quell’ingombrante parola: “jazz”. La personalità di Frisell è curiosa tanto quanto lo è la sua chitarra, amica fidata da una vita, che durante il lockdown si è nuovamente messa al suo fianco per guidarlo in un periodo incerto per la maggior parte dei musicisti. 
Ho sempre ritenuto quello del musicista un lavoro molto “incerto” – ci ha detto Frisell – Non si sa mai cosa può andare storto o cosa può succedere, e le cose possono cambiare in maniera drastica da un momento all’altro.  

 A Frisell è successo di...

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mettere nero su bianco un nuovo album, Four per l’appunto, insieme ad una lineup inedita e formata da Greg Tardy (sassofono), Gerald Clayton (pianoforte) e  Johnathan Blake (batteria). 
Chiamato a raccolta questo nuovo gruppo di musicisti, Frisell ha lasciato che le idee fluissero in libertà, sia che si trattasse di nuove composizioni, sia che si parlasse di re-visitazioni di brani del suo catalogo. Senza un bassista al supporto della sezione ritmica, Frisell ha attraversato nuove rotte. Quello che segue è ciò che ci ha raccontato al riguardo, dopo varie peripezie tecnologiche per iniziare la nostra videochiamata. 

Bill, per noi è un piacere ed un onore averti fra le nostre pagine. Come stai?  
Grazie per l’invito, ne sono felice. E mi dispiace di aver avuto tutti quei problemi tecnici prima. Ogni tanto la tecnologia ci rema contro. 

Non c’è problema. Purtroppo succede più spesso di quanto vorremmo ammettere. Come vanno le cose?.  
Molto bene direi. Sono molto occupato, questo è certo. La pandemia ha dato una nuova sferzata al mondo musicale, e la cosa positiva che ne è uscita è che ora bisogna recuperare tutto il lavoro perso durante il lockdown. Pertanto sono sempre impegnato nel preparare un nuovo show. A volte rimango basito da quante date io abbia già in programma. Sono molto grato di questa opportunità 

Pensi il tuo lavoro sia cambiato in qualche modo dopo il lockdown?  
Non direi. Semmai è semplicemente aumentato. Tutto ciò che è stato rimandato ora è tornato in programma, e si somma a tutti i lavori ed i progetti che hanno preso il via durante la pandemia. Non è sempre facile incastrare tutto per me, ma sono bei problemi da avere [ride.] Il mio lavoro in fin dei conti è sempre stato lo stesso. Sono tanti anni ormai che suono la chitarra, e mi sembra di averlo sempre fatto alla stessa maniera. Oggi però sono molto più consapevole delle mie fortune. Ho sempre ritenuto il lavoro del musicista un lavoro molto “incerto”. Non si sa mai cosa può andare storto o cosa può succedere, e le cose possono cambiare in maniera drastica da un momento all’altro. Penso che la pandemia lo abbia dimostrato molto bene. Negli ultimi venti, tren’tanni forse, sono sempre stato impegnatissimo, ed ho suonato tantissimo. Oggi sono certo che non sia niente da dare per scontato. Lo sapevo anche prima, ma oggi ne ho una consapevolezza diversa. 

Ti ricordi come andavano le cose quando hai iniziato a suonare?  
Molto male. [ride] Sembra assurdo da dire ma quando ho iniziato era una fortuna se qualcuno mi dava l’opportunità di suonare. Oggi rischio invece di dover rifiutare le serate. La vita è strana, può essere tanto bella quanto difficile. A me è andata bene fino ad ora. 

Dai primi giorni della tua carriera, come è cambiato il tuo approccio alla musica invece. Oggi, ad esempio, siamo a qui a parlare anche grazie al tuo nuovo album, Four, come si è evoluto il tuo fare musica rispetto agli esordi?  
Penso sia una domanda con moltissime risposte, ma quella più importante credo sia che da quando ho iniziato a fare musica non sento di aver ancora concluso nulla. La musica è qualcosa che cambia di continuo, ed ogni volta scopriamo qualcosa di nuovo riguardo ad essa e riguardo a noi stessi. Quando registriamo un album proviamo a congelare un dato momento della nostra esistenza, ed in quel momento speriamo di dare il meglio di noi perché rimanga immortalato qualcosa di valido di essere trasmesso. Non riesco neanche più a ricordare quanti album ho registrato nella mia carriera, ma se devo essere onesto mi sembra di aver continuato a registrare un unico e lunghissimo album che va avanti da tanti anni. 

Si tratta di una bella immagine...  
Sì, penso sia interessante come idea, perché permette di vedere la musica come un flusso continuo che va avanti di pari passo con la nostra vita, e non come immagini staccate. Mi piace pensare di aver dato un filo conduttore a tutto ciò che ho fatto, ma comuque credo di non aver finito il mio compito... E probabilmente non lo finirò mai. 

La band con cui hai registrato il nuovo album è una band “nuova”. Avete rivisitato brani pre-esistenti e avete anche dato vita a nuovo materiale. Che tipo di esperienza è stata?  
Molto interessante. Perché quando si suona con un nuovo progetto musicale c’è sempre quel senso di scoperta e di speranza che le cose vadano bene. Non ero sicuro di quello che sarebbe divenuto di questo progetto, ma credo che il risultato finale sia qualcosa di perfettamente calzante con ciò che sono oggi. 

Riguardo ai vecchi brani che avete ri-arrangiato come ti sei sentito. Che effetto ti fa rivisitare delle composizioni che hanno qualche anno sulle spalle?  
Man mano che gli anni passano mi sento sempre più interessato a far vivere i miei brani una nuova vita. Il gruppo che ha registrato il nuovo album non aveva mai suonato i miei brani prima, e pertanto non sapevo cosa aspettarmi. Il risultato finale mi ha sorpreso, perché mi ha dato conferma del fatto che c’è sempre un nuovo modo di guardare al passato. Mi piace l’idea che i brani non siano semplicemente fermi nel tempo, e che possano evolversi in qualcosa di nuovo. 

Alle persone che hanno registrato con te hai dato indicazioni precise? Hai mai sentito la necessità di “spiegare” qualcosa riguardo ai brani?  
Ho provato in ogni modo a non farlo perché credo sia qualcosa di controproducente. Non voglio dire ad altri come suonare, voglio che siano loro a portare la loro esperienza. Pertanto mi sono limitato a mostrare qualche progressione di accordi, o al suggerire qualche tipo di passaggio. Niente più. 

Il processo che hai descritto non è comunque qualcosa di semplice da ottenere. Non deve essere sempre facile tirarsi indietro dal dare indicazioni riguardo alle proprie idee...  
Non è sempre facile, ma ci provo. Ad ogni modo non mi sono mai sentito il “leader” di nessun progetto. Sono sempre interessato alla collaborazione, non al guidare qualcuno in una direzione. In generale sono molto più intrigato dallo scoprire nuove direzioni sonore. 

E qual è stata la sorpresa maggior?  
Non saprei dire, perché ci sono stati così tanti momenti in cui sono rimasto a bocca aperta, da non poterli riassumere. Il bello di suonare con persone “nuove” è che si rimane sempre sorpresi da qualcosa che inevitabilmente non avremmo potuto pensare senza un aiuto esterno. 

In un ambiente di lavoro così libero, come quello che hai creato per Four, credi che l’improvvisazione divenga un processo molto più naturale? Pensi ci sia spazio per un tipo di creazione “istantanea” più fluida?  
Penso che tutto passi inevitabilmente dalla fiducia. Se c’è fiducia allora ci può essere improvvisazione. Spesso si pensa all’improvvisazione come a qualcosa che va imparato sullo strumento, ma credo che la vera lezione che ho appreso negli anni sia quella di imparare ad improvvisare con la mente. Se non ti fidi del musicista che hai davanti non potrai mai improvvisare, e lo stesso vale per lui. Se non lasci che gli “errori” avvengano, non potrai improvvisare in maniera naturale, perché sarai sempre terrorizzato dall’errore. A volte gli errori possono diventare dei veri e propri miracoli all’interno di un’improvvisazione, ma perché questo accada c’è bisogno di rispetto e di fiducia tra le persone che stanno suonando. Durante le registrazioni di Four , c’è stato un momento, anche se non ricordo il brano, in cui Gerald Clayton (pianoforte) ha letteralmente salvato un mio errore facendolo diventare qualcosa che sembra intelligente e ricercato. Non so come abbia fatto, ma questo è il tipo di magia che avviene quando due persone che suonano si fidano l’una dell’altra. 

Sul piano concettuale, quando ti ritrovi a creare musica “istantanea”, ovvero improvvisando con altri musicisti, si tratta più di un processo di addizione o di sottrazione?  
Forse entrambi. Nella mia carriera ho passato diverse fasi. Agli inizi, quando ero giovane, ero molto più interessato ad aggiungere note e elementi musicali. Penso sia normale, perché all’inizio devi dimostrare di essere più forte di tutto il resto. Devi aggiungere e aggiungere, per riuscire a costruire... Nel tempo l’esperienza ti insegna che a volte è giusto provare a togliere per far sì che emerga il necessario. E così nel corso degli anni il modo di suonare cambia dastricamente, e diventa qualcosa di molto più concentrato sull’essenziale.  
Penso di essere ancora interessato al processo di addizione, anche perché continuando a sottrarre resteremmo con il silenzio. In maniera molto strana, però, credo che oggi il mio interesse sia rivolto all’aggiungere in maniera selettiva. Anche quando suono con gli altri sono molto attento al numero di note o di suoni che produco, perché voglio che emerga tutto ciò che è fondamentale. 

E quindi dopo un processo che ti ha portato a questo punto nella tua carriera, che tipo di chitarrista ti senti?  
In maniera assurda mi sento sempre quel chitarrista “affamato” che ero quando ho iniziato a suonare. Indubbiamente la pandemia mi ha riavvicinato allo strumento, e mi ha fatto comprendere di avere un legame indissolubile con la chitarra. Allo stesso tempo, proprio durante la pandemia, ogni volta che suonavo rimanevo sempre con qualche domanda. Ogni nota che suoniamo può aprire le porte a delle domande. 

Credi questo rappresenti una sfida per te? Anzi, riformuliamo: cosa rappresenta una sfida per Bill Frisell a questo punto della sua carriera?  
Le stesse cose che mi mettevano alla prova quando ero giovane. Le persone pensano che io scherzi quando dico che mi sento allo stesso modo, ma la verità è che la musica che non ho ancora creato è infinita. Ed era così anche anni fa, pertanto la sfida è sempre la stessa, perché c’è sempre qualcosa di nuovo, qualcosa da scoprire. 

Quest’idea di “infinito”, o di non poter mai arrivare a dire di aver completato il processo, ti ha mai spaventato?  
Sì, molto. Quando ero giovane credevo che se mi fossi esercitato abbastanza avrei raggiunto un punto della mia vita in cui avrei scritto solo musica incredibile. Ma non è così. La musica non funziona così. Credetemi: chi vi dice di aver compreso del tutto la musica, vi sta mentendo. 
Coltrane e Bach non l’hanno mai compresa del tutto, erano sempre alla ricerca di qualcosa. Una volta compreso questo, anche io ho capito che avrei continuato il mio percorso all’infinito. 

Bill arrivati a questo punto possiamo indugiare in un po’ di chiacchiere da nerd della chitarra?  
Assolutamente, è sempre bello parlare di chitarre. 

Quali strumenti hai usato per registrare "Four"?  
La chitarra principale è uno strumento costruito da J.W. Black, il quale è un ex liutaio del Fender Custom Shop. Come potete vedere dalle foto il corpo è quello di una Telecaster, ma ci sono molte modifiche interessanti. Anzitutto ho fatto montare un ponte Bigsby, ma i due pickup sono la “variazione” princiapale. I pickup sono realizzati invece da Jeff Callahan. Quello al manico è un humbucker che però è realizzato nelle forme di un P90. L’idea era quella di un humbucker che suonasse più simile ad un single coil, ma che fosse silenzioso come un humbucker sa essere. Il pickup al ponte invece è molto più simile a quello di una Firebird. 

Si tratta di un mini-humbucker?  
Sì, direi di sì. Le sonorità sono molto vicine a quelle di un mini-humbucker. 

La Telecaster è una grande costante della tua carriera. Se non erro l’hai sempre definita la chitarra con la quale ti senti a casa” .  
Esatto. A questo punto della mia carriera ne ho molte, sicuramente troppe. [ride]  
Però tutte hanno caratteristiche diverse. Ho un paio di Telecaster con pickup humbucker al manico, che è qualcosa di obbligatorio per chi ama veramente la Telecaster. In generale mi piace avere tutte queste varianti che sono però accomunate dalle forme simili dello strumento. Si tratta di qualcosa che mi conferisce una sensazione molto positiva. 

Ci sono altri strumenti nella tua personale collezione che di tanto in tanto vai a rispolverare?  
C’è una Collings che adoro particolarmente. Non l’ho utilizzata per Four , ma si tratta di una I30, che è fondamentalmente una chitarra modellata sulla Gibson ES-330, ha un suono veramente molto morbido e caldo. 

Che insieme alla qualità è uno dei marchi di fabbrica di Collings...  
Francamente non penso di averne mai trovata una che suonasse male, è abbastanza incredibile. 

Per quanto riguarda gli amplificatori, cosa hai utilizzato?  
Credo di aver registrato Four con un unico amplificatore, ovvero un Carr Sportsman. Sì, sono abbastanza certo di non aver usato altro, che è anche molto singolare considerato il fatto che possiedo moltissimi altri amplificatori che adoro. 
Ho un vecchio Gibson con un singolo cono da 10” che considero qualcosa di unico, sia per il suono, sia per il fatto che è un esemplare molto particolare. Ho anche un vecchio Princeton degli anni ‘60 al quale sono molto legato, non è un Princeton Reverb, ma semplicemente un Princeton, modello che non sempre riceve il giusto rispetto. 

Visto quello che ci hai raccontato fino ad ora ci sembra quasi assurdo chiederti se la tua ricerca per il suono definitivo sia ancora in corso...  
Oh ragazzi, quella, più di ogni altra cosa, non ha mai fine... Però è anche molto divertente [ride]. Ogni chitarra è diversa, ogni amplificatore è diverso ed anche dieci Telecaster diverse possono suonare diverse. Il divertimento è infinito, anche se tutti noi chitarristi dobbiamo riconoscere di spendere troppo tempo a teorizzare sul suono. Spesso ci dimentichiamo che viene dalla nostra testa, prima ancora che dalla strumentazione. 

Bill, è stato un vero piacere parlare con te.  
Lo stesso vale per me, spero di vedervi presto dal vivo in Italia. 

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