PAT METHENY UNITY GROUP Kin

di Paolo Battigelli
16 novembre 2016

intervista

UNITY GROUP
PAT METHENY
Kin
Pat Metheny, 60 anni il prossimo 12 agosto, è quel che si suole definire un mattatore... anche se, diversamente dall’etimo originale del termine, non pone in ombra le doti degli altri. Già, il chitarrista di Lee Summit è uno dei musicisti più discreti, sempre intento ad esplorare territori e mood...

Quando si entra nel mondo di Pat Metheny (classe 1954) si ha la certezza di ascoltare non una star attorniata da semplici vassalli portatori di gloria, ma un team di menti elette intente a creare qualcosa di sorprendente. Ogni album lo coglie in un momento particolare, intento a esplorare territori spesso vergini: è accaduto con The Way Up (2005) del PM Group (un unico brano di oltre un’ora, suddiviso in quattro tracce per mere esigenze di ascolto); con l’ambizioso Orchestrion del 2010, con un Metheny formato one-man-band al limite delle umane possibilità, e poi un paio di anni fa, con That’s All About, una raccolta di brani composti da altri, in cui sette Metheny suonava la chitarra baritono (così come aveva fatto in One Quiet Night) eseguiti sfoderando la particolare tecnica appresa anni prima da Dr. Ray Harris, chitarrista/inventore,...

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suo concittadino.

Musicalmente eclettico, in fondo, Pat Metheny lo è sempre stato: sia in veste solistica che in quella di leader del PMG. Poi, nel 2012, la decisione di rivisitare il lineup in forma di quartetto, circondato [c’è bisogno di dirlo?...] da musicisti di enorme talento ed vasta esperienza: Antonio Sanchez (batteria), Ben Williams (basso) e Chris Potter (sax). Un ensemble che Metheny battezza Unity Band, con cui gira Europa e USA nella seconda metà dell’anno. Un gruppo affiatato, in grado di far scintille grazie alla sapiente orchestrazione del leader e la bellezza di un repertorio che andrà a formare l’ossatura dell’album Unity Band (2012).

La novità è il ritorno in formazione, dopo più di 30 anni, del sax tenore il primo ed unico precedente è l’iconico album 80/81, in cui si possono ascoltare due titani dello strumento come Dewey Redman e Michael Brecker, con risultati eccellenti. [Su tutti, la conquista del 20esimo Grammy Award]. Dopo un tour di oltre cento date, arriva una variante: ai quattro musicisti si aggiunge il quinto, il polistrumentista Giulio Carmassi e il nome cambia in PM Unity Group. Il risultato? Una serie di fruttuose session e l’album Kin. Un concentrato del Metheny-pensiero.

Il 2013 è stato un anno pieno di soddisfazioni per Pat Metheny e il riconoscimento per questo nuovo lavoro rappresenta la classica ciliegina sulla torta.
Grammy Award a parte, sono da registrare il successo per acclamazione di Tap: John Zorn’s Book Of Angels Vol. 20 (di e con John Zorn); l’entrata nella Hall Of Fame della prestigiosa rivista jazz d’oltreoceano DownBeat [non solo Pat è il membro più giovane, ma il quarto chitarrista a ricevere tale onore dopo Charlie Christian, Django Reinhard e Wes Montgomery!] e il plauso per le colonne sonore dei documentari Becoming California e Living Is Easy with Eyes Closed (quest’ultimo firmato insieme all’amico Charlie Haden).

Ugualmente, l’anno appena iniziato si annuncia intenso e di successo per Metheny. La peculiarità di Kin è racchiudere l’intera produzione in 9 brani tanto complessi quanto lineari e godibili anche per un ’orecchio non smaliziato. Metheny lascia la band in libertà ma usa ogni momento per attestare il proprio valore di solista con effetti dirompenti. Cominciando dal brano d’apertura On Day One (15:15) in cui crea, complice la sua fedele Ibanez PM Signature, pregevoli tessiture sonore e complesse armonizzazioni. Assoli e interventi melodici che si ripetono nelle tracce successive (quattro delle prime cinque in scaletta superano i dieci minuti ), le quali, lungi dall’essere semplici improvvisazioni o lunghe jam, tradiscono uno studio meticoloso e una cura per il dettaglio che sfiora l’ossessione. Cambi repentini di tempo, accordi e singole variazioni, sono il risultato di una dedizione assoluta. Costruiti comunque in modo tale che ogni musicista coinvolto brilli di luce propria, talvolta in modo inaspettato e sorprendente.

Ulteriore carta vincente, come dicevamo, è l’inserimento in squadra del toscano Giulio Carmassi (pisano per l’esattezza), che ha studiato pianoforte, batteria, arrangiamento e composizione e che Metheny ha definito “my italian wild card” [la mia carta jolly italiana]. In Kin interpreta il difficile ruolo di piano accompanist ed è in grado di convogliare e valorizzare gli interventi dei validissimi compagni d’avventura. L’idea è di ottenere una ricchezza timbrico/sonora che vada oltre le possibilità di un quartetto tradizionale; e così, proprio grazie all’inserimento di Carmassi e agli strumenti elettronici, Metheny aggiunge tromba, corno francese, flauto, sax alto, vibrafono, trombone e parti vocali tra le più evocative mai incise. Una vera prova d’autore.

Infine, il titolo Kin [stirpe, famiglia]: “mi sembrava il più adatto per sintetizzare il mio attuale modo di concepire la musica...” - ha spiegato Metheny che, con questo album, ha ottenuto un sound sensorialmente eccitante, in grado, dopo tre decadi di frequentazione dei piani alti della fusion, di affrancarlo dal mainstream jazz divenendo uno stile per sè. Una sorta di archetipo, che è poi il massimo riconoscimento per un artista. Dopotutto, chi può vantare 20 Grammy Award in 12 categorie diverse, una serie di seminali album in trio, importanti lavori da solista, colonne sonore di film hollywoodiani di successo. Nonché collaborazioni con artisti blasonati come Ornette Coleman, Steve Reich, Charlie Haden e Brad Mehldau, e un’autentica istituzione come il PM Group, unico ensemble capace di aggiudicarsi 7 Grammy consecutivi per altrettanti album? La risposta è semplice, Pat Metheny!

Il tempo è stato galantuomo con Pat Metheny e il suo ultimo Kin ne è la prova. Nella chiacchierata che segue il chitarrista del Missouri scopre le sue carte, raccontando i retroscena che hanno portato alla realizzazione di uno dei suoi album migliori, di cosa la musica rappresenti per lui, della soddisfazione per aver cooptato il polistrumentista Carmassi e di alcuni gustosi aneddoti riguardanti il suo nutrito passato di musicista... come il “no” detto a John McLaughlin e Paco De Lucia : un’offerta che chiunque avrebbe accettato ad occhi chiusi, ma che invece rifiutò...

La prima impressione ricavata dall’ascolto di Kin, è che racchiuda un po’ tutti i tuoi album precedenti. Sorta di compendio del Pat Metheny-pensiero...
Questa è la prima intervista in cui parlo di Kin e dunque nessuno mi ha ancora messo a parte delle proprie impressioni. Ma sono pienamente d’accordo col tuo pensiero e spero che molti lo condivideranno. Perché, lo confesso, l’idea alla base di questo progetto era riuscire a realizzare un mix delle mie esperienze passate, cercando possibilmente di migliorarle. Nel corso della carriera, come solista e membro di una band, ho percorso strade diverse, visitato territori musicali i più lontani: un’esplorazione di volta in volta limitata però ad un’area ben precisa. Stavolta non è stato così. Grazie a questo fantastico gruppo, sono riuscito a mettere a frutto le cognizioni acquisite in anni di ricerca. Tutto ha avuto inizio con la Unity Band, un paio di anni fa, che è poi il nucleo centrale del PM Unity Group: una combinazione di musicisti incredibili. L’album Unity Band (2012) ha rappresentato qualcosa di speciale. L’inserimento del sax, dopo oltre 30 anni da 80/81, ha determinato una svolta nel mio modo di pensare alla musica e la mia conseguente crescita umana e professionale. In noi era presente una sorta di magnetismo, come poli che fatalmente si attraggono: perciò, una volta terminato il tour di quell’album, ho deciso di continuare questa esperienza; con il proposito, se mai avesse avuto un seguito, di spingermi oltre. Sino a oggi avevo considerato ogni album a sé, scollato da qualsiasi cosa fatta in precedenza, ma ora volevo un album musicalmente variopinto e cangiante; con grande cura verso i dettagli e stilisticamente “aperto”. Questa band era in grado di poterlo fare. Con il progredire del lavoro, sentivo di avere tra le mani qualcosa di speciale... fui preda di un grande entusiasmo!

Ha influito anche l’inserimento in squadra di un nuovo giocatore, è così?
Molto di più, un vero jolly. Mi riferisco naturalmente all’italian guy Giulio Carmassi. Un musicista, o meglio, un polistrumentista unico. Ho pensato a lui perchè influenzato dalla vostra lingua molto melodica e sensibilità musicale fuori dal comune, ma non solo... Il suo talento di pianista è fuori discussione e ciò che mi ha colpito è l’alchimia creatasi tra noi: non ci sono molti pianisti con i quali amo suonare e confrontarmi. Indipendentemente dalla loro preparazione. Le sue parti armoniche sono semplicemente perfette, per non dire della varietà di cose che sa fare, sia che suoni il basso, il corno francese, la tromba, il trombone o il sax. Quando un giocatore pesca un jolly, sa di avere ottime chance. Inoltre Giulio, dal punto di vista compositivo, possiede una mente elastica in grado di concepire cose sublimi. Perfetto, tra l’altro, per bilanciare l’intervento degli strumenti elettronici già presenti nel progetto Orchestrion. Oltre al nucleo centrale della band, serviva un elemento “naturale” che si contrapponesse ai suoni “artificiali” e Giulio ha assolto a questo compito alla grande. Non ho mai avuto una tale piattaforma su cui costruire la mia musica.

Avevi più brani tra cui scegliere i nove finiti in scaletta?
Ho composto una gran quantità di musica per Kin perché, almeno in principio, non ero sicuro di avere del materiale adatto per tradurre ciò che avevo in mente. Mettere insieme mondi differenti era un compito non facile, da qui la necessità di sperimentare diverse soluzioni, modificarle in corso d’opera, eliminare o ripescare melodie... In questi casi, si va per tentativi e, alla fine, hai ben chiaro ciò che può funzionare e cosa invece sarebbe fuori posto. Una volta in studio abbiamo lavorato sui nove brani scelti.

Il titolo Kin (famiglia, stirpe) può apparire criptico, così come le due frecce poste tra parentesi...
Kin è una parola che ha per me molti significati, tutti importanti, e dunque perfetta per sintetizzare ciò che rappresenta l’album. Implica una sorta di legame di sangue, ma anche di amicizia, e può essere riferito alla musica. Sono sempre andato alla ricerca di elementi che potessero in qualche modo fondersi in un sound pieno e originale, e il risultato è un linguaggio tribale difficile da decifrare ma forte e autorevole. Non a caso è abbastanza arduo definire musicalmente Kin e, anzi, sfido chiunque a farlo. Ho cercato di abbattere le barriere stilistiche entro cui la musica solitamente è circoscritta: non amo le etichette, che considero una ghettizzazione ad uso e consumo dei media. Con Kin credo di esserci riuscito.

Perché la parentesi con le due frecce in direzioni opposte?
E’ qualcosa tipo il nome scelto da Prince, un simbolo impronunciabile. Puoi interpretarlo come “da qui a lì”, a significare il range entro cui spazia la musica dell’album, ma è solo un’ipotesi. Quando ho sottoposto l’idea al nostro art director, questo segno l’avevo già messo. Gli dissi: “non ho idea di cosa rappresenti, ma ci sta bene!” E lui ha concordato. Infine, il titolo completo parla di legami che durano nel tempo, dalle generazioni passate a quelle che seguiranno: un’estensione del significato della parola famiglia. Se andiamo indietro nel tempo, e sono sufficienti mille anni, ogni persona sul nostro pianeta conta avi in comune; così come in futuro, grazie alla globalizzazione, i vincoli si incroceranno all’infinito. Un processo già iniziato. Per la musica è lo stesso. Ogni nuova generazione di musicisti costruisce il proprio sapere sulle conoscenza passate gettando i semi di nuovi ed inaspettati sviluppi.

E qui veniamo al disegno di copertina, un collage multicolore che rappresenta un volto umano...
Si tratta proprio di un collage, un tema già sviluppato in passato, da Still Life (1987) a Secret Story (1992) e spiega come dall’unione di tanti elementi diversi, per forma e colore, si possa creare qualcosa di definito e completo. E il rimando alla musica è sottinteso. Perché un volto? Perché è il nostro biglietto da visita! E’ con gli occhi, il sorriso e la voce che comunichiamo con il prossimo.

Alcuni brani durano oltre 10 minuti, On Day One addirittura 15...
Non è una novità. Sin dal primo album composizioni di questa lunghezza sono state una mia costante. Per esprimere compiutamente ciò che ho in mente, ritengo che 10/15 minuti siano il tempo giusto. Parlando di On Day One, si tratta di una lunga jam, anche se il termine è improprio dato che c’è una partitura... e di 35 pagine fittamente scritte! Il fatto che possa apparire come una jam è un merito: significa che la costruzione melodica è stata interiorizzata da tutti. Questo brano è un buon esempio del mio modo di comporre e di come stili diversi riescano a compenetrarsi senza problemi, dando vita a qualcosa di intenso e godibile, con una propria identità.

E di Adagia, cosa ci dici? Il titolo ha a che fare con la lingua italiana?
So che la parola Adagio ha un preciso significato nella lingua (musicale) italiana e in effetti il brano è abbastanza lento. In realtà si rifà a un’espressione inglese. Come puoi immaginare la scelta del titolo, in assoluto l’ultima cosa a essere decisa, rappresenta sempre un problema. E nel caso di Kin è stato ancora più vero... Puoi scegliere una parola a caso, ma hai bisogno che si leghi al sapore del brano, che colpisca e rimanga impresso. Uno sforzo immane. Per tutta la durata delle registrazioni, ogni brano viene indicato con un numero progressivo ma, alla fine, diviene gioco forza trovargli un titolo. E allora iniziano per me i mal di testa!

Il titolo più facile?
Direi Genealogy. Perché si tratta di una parola strettamente imparentata con Kin. Musicalmente è uno dei pezzi che amo di più per via della trama e degli interventi dei vari musicisti. A volte restano i cosiddetti “working titles”, i titoli provvisori. E’ il caso del criptico Kqu. Di esso ne è
responsabile mia figlia: un giorno entra nello studio, sale sulla sedia e si mette a tamburellare sulla tastiera del computer; le prime lettere che digita sono proprio KQU... che è diventato il titolo!

Usi sempre la tua Ibanez Signature?
Naturalmente! Anche se Kin non è un disco guitar oriented, ma punta soprattutto sulla band e l’aspetto meramente compositivo. Ho utilizzato anche una chitarra acustica realizzata da Linda Manzer (in Adagia) ed il Roland Synth (nella title track). Tutto qui.

Il 2013 è stato un anno ricco di soddisfazioni, cominciando dal Grammy Award per l’album Unity Band.
Una soddisfazione enorme e gratificante! La concorrenza era agguerrita e il fatto di aggiudicarselo ha rappresentato per me e la band il segno tangibile di un lavoro ben fatto.

Vogliamo ricordare l’investitura come membro della Hall Of Fame della prestigiosa rivista jazz americana Downbeat?
Fu un’autentica sorpresa e un riconoscimento forse prematuro! [ride]... essendo il chitarrista più giovane ad averlo ricevuto: il quarto chitarrista, dopo Charlie Christian, Django Reinhard e Wes Montgomery. Un nano tra giganti.

Di recente hai inciso un paio di interessanti colonne sonore: Living Is Easy With Eyes Closed e Becoming California. Ce ne parli?
Nel corso degli anni ho ricevuto diversi inviti a comporre musica destinata a colonne sonore. E’ una cosa che trovo divertente pur se non posso dedicarmici spesso per mancanza di tempo. Nel caso di Becoming California mi hanno commissionato un paio di ore di musica che ho consegnato lasciando decidere loro cosa farne. Amo la California e comporre musica per un documentario naturalistico incentrato sulle sue bellezze, è stato facile e piacevole. Ne ho visti alcuni spezzoni, e l’ho trovato interessante. Diverso il discorso di Living Is Easy with Eyes Closed. Più che altro si è trattato di un favore a un caro amico, Charlie Haden. Charlie aveva accettato di scrivere la musica per questo film spagnolo, ma le sue precarie condizioni di salute avevano rallentato il lavoro e così mi ha chiesto di aiutarlo. E l’ho fatto volentieri! Chiesi quindi a Charlie quanto tempo avevo a disposizione e la sua risposta fu: “mi serve per la settimana prossima...” – “Cosa? Stai scherzando, vero?” e invece era serissimo! [ride] Fortunatamente, poco dopo aver visionato il film, ebbi in mente il genere di musica da creare... Mi misi all’opera e, in sette giorni, sono riuscito a comporre un’ora di musica. Poi l’ho raggiunto in California e ne abbiamo discusso con il regista.

Kin sarà nei negozi alla metà di questo mese di febbraio. Inizierai subito un tour?
Sì, comincerò dagli USA per arrivare in Europa in maggio. Sarò in Italia verso la metà di giugno e conto di vedere un sacco dei lettori della vostra rivista!

Pat Metheny gear


Ibanez PM Signature. 1958 Gibson ES175. Linda Manzer Acoustic Guitars (tra cui la Pikasso a 42 corde). D’Addario Strings (011 Light Gauge Flatwound ).
Digitech 2101 DSP Guitar Preamp. Acoustic 134 Amp. Roland Guitar Synth GR-300. Lexicon Prime Time Digital Delay

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