KAKI KING Tutto Passa
di Francesco Sicheri
01 settembre 2025

intervista
Kaki King
Tutto Passa
Due dischi, due anime, due mondi sonori distanti eppure legati da un filo invisibile: quello della rinascita. Con Tutto Passa e Sei, Kaki King torna a incidere musica originale dopo un lungo silenzio discografico, affrontando tematiche profonde e personali attraverso un linguaggio che fonde elettronica, minimalismo e chitarra.
Statunitense, nata ad Atlanta nel 1979, Kaki King è una delle chitarriste più innovative della scena acustica contemporanea. Ha esordito nel 2003 con l’album Everybody Loves You, imponendosi da subito per il suo fingerstyle percussivo e un fraseggio non convenzionale. Nominata ai Golden Globe per la colonna sonora di “Into The Wild” di Sean Penn, ha collaborato con artisti come Eddie Vedder, Dave Grohl e Michael Brook. Da sempre attenta alla sperimentazione, la King ha portato la chitarra in territori inediti, esplorando post-rock, elettronica, teatro e sound art.
In occasione dell’uscita dell’ep e dell’album, rispettivamente titolati Tutto Passa e Sei, abbiamo raggiunto Kaki King in una video chiamata e ci siamo fatti raccontare del suo rapporto con l’Italia, l’origine dei titoli in lingua italiana, ma anche della sua battaglia contro le dipendenze e la rinascita umana ed artistica che ne è seguita. Abbiamo parlato di gear, di suono, di infanzia e...
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Statunitense, nata ad Atlanta nel 1979, Kaki King è una delle chitarriste più innovative della scena acustica contemporanea. Ha esordito nel 2003 con l’album Everybody Loves You, imponendosi da subito per il suo fingerstyle percussivo e un fraseggio non convenzionale. Nominata ai Golden Globe per la colonna sonora di “Into The Wild” di Sean Penn, ha collaborato con artisti come Eddie Vedder, Dave Grohl e Michael Brook. Da sempre attenta alla sperimentazione, la King ha portato la chitarra in territori inediti, esplorando post-rock, elettronica, teatro e sound art.
In occasione dell’uscita dell’ep e dell’album, rispettivamente titolati Tutto Passa e Sei, abbiamo raggiunto Kaki King in una video chiamata e ci siamo fatti raccontare del suo rapporto con l’Italia, l’origine dei titoli in lingua italiana, ma anche della sua battaglia contro le dipendenze e la rinascita umana ed artistica che ne è seguita. Abbiamo parlato di gear, di suono, di infanzia e...
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di “Bugs”, il suo spettacolo di musica multimediale pensato per i bambini…
È un piacere ritrovarti, Kaki. Come stai?
Bene, grazie. Oggi fa caldo… sto per andare al mare con la famiglia e, avendo dei figli, l’estate è piena di impegni anche per loro. D’altro canto, sto lavorando su parecchia musica. È un periodo piuttosto intenso e, insomma, non ci si ferma mai: ogni giorno succede qualcosa.
Abbiamo ascoltato il tuo nuovo ep (Tutto Passa) e anche il disco (Sei) che hai realizzato insieme a Tamar Eisenman, due lavori interessanti e profondamente diversi...
Totalmente diversi. Assolutamente.
Dici che c’è una sorta di interruttore-mentale che ti permette di passare da un progetto all’altro, oppure si tratta di processi che nascono in maniera naturale?
Bella domanda. In realtà, a questo punto della mia carriera, avendo affrontato così tanti linguaggi diversi, non sento più il bisogno di compartimentare quello che faccio, ma quel che mi ancòra a tutto è la chitarra. È sempre il fulcro del tutto. Anche quando il suo suono non è dominante, tutto ciò che faccio ha origine da lì. La chitarra è il punto di partenza da cui nasce la struttura di ogni mio progetto. Penso che sia proprio questo a mantenermi concentrata.
Da dove arrivano i titoli in italiano che hai dato ai tuoi due nuovi lavori? E, partendo dall’ep, che tra l’altro ha un taglio elettronico e meno incentrato sulla chitarra rispetto al solito, come si collega il tutto al lavoro con Tamar?
In realtà, si tratta di due storie completamente diverse, entrambe dalla rilevanza importante. Per quanto riguarda i titoli in italiano, beh... l’Italia è da sempre un posto meraviglioso per me. Un Paese accogliente, una vera e propria gioia. Per me è un dono avere un Paese così specifico in Europa dove sentirmi a casa. Ho amici, fan di lunga data, ed è un posto in cui torno spesso. Credo che molti artisti americani tendano a pensare all’Europa come a un’entità unica: fanno tour nelle capitali e poi tornano a casa senza avere l’opportunità di crearsi un legame con i luoghi o le persone. Io per fortuna ho iniziato presto a suonare nei locali in Italia, toccando città e anche paesi più piccoli, e questo mi ha permesso di entrare davvero in contatto con le persone. Così ho anche imparato un po’ di italiano e trovo che sia una lingua affascinante. Non è molto diffusa negli Stati Uniti, tutti conoscono un po’ lo spagnolo, molti si divertono a usare frasi in francese… ma a mio avviso l’italiano ha qualcosa di magico, una musicalità particolare.
Quindi anche se i due progetti sono molto diversi, hanno titoli italiani a fare da legame...
Sì, esatto. Sono nati in momenti molto distanti tra loro. Sei è legato a uno spettacolo che ho plasmato sulla chitarra a sei corde e su una danza di accompagnamento, dunque, la parola “Sei” in italiano riassume perfettamente il concept: sei corde, sei tu. Un titolo che è venuto fuori in modo naturale. Ironia della sorte, anche se la musica di Tutto Passa è nata prima, il titolo di Sei è arrivato per primo. Dietro al titolo Tutto Passa c’è una storia. Durante uno dei miei soggiorni in Italia, ho conosciuto Robbie McIntosh, fotografo di stanza a Napoli. Avevo visto una sua foto incredibile: un uomo col tatuaggio “Tutto Passa” sul petto e sullo sfondo l’ambientazione del suo studio. Quella foto mi ha colpito moltissimo e ho capito che il titolo era già lì, davanti a me. Così ho chiesto a Robbie se potevo utilizzarla per la copertina. Il suono di quella frase ha un peso, una bellezza che trovo unica.
Immagino che, vivendo a New York, tu abbia avuto a che fare con l’italiano più di altri artisti americani. In fondo, un tempo era la città con la più alta concentrazione di italiani negli Stati Uniti… ma forse oggi non più così tanto.
Sì, certo. Ci sono tantissimi italoamericani, ma va detto che il loro rapporto con la lingua italiana è molto particolare. È una versione tutta loro, diciamo così. Poi ovviamente ci sono molti italiani espatriati qui, ma c’è comunque qualcosa nell’Italia che per me ha sempre avuto un carattere speciale. I gesti delle mani, il modo di comunicare…
Ah, quelli arrivano subito dopo le prime parole.
Sì! Ma non lo dico per prendere in giro, assolutamente. Lo dico con affetto. L’Italia per me è sempre stata un luogo accogliente. Un posto che mi ha sempre fatto sentire a casa. E questo l’ho sempre apprezzato.
Parliamo allora di Tutto Passa, la cui componente elettronica colpisce parecchio...
C’è tutta una storia dietro, e la racconto volentieri. Parliamo di parecchi anni fa, dei primi anni 2000 forse. Stavo lavorando a un progetto parallelo con il mio amico Dan Brantigan, che peraltro ha lavorato con me su Tutto Passa. Dan ed io eravamo in tour insieme: lui era tour manager, fonico, suonava la tromba... insomma, un vero e proprio compagno di viaggio. Abbiamo girato il mondo insieme. E stavamo registrando materiale frutto della sperimentazione e dell’improvvisazione. Poi però, in quel periodo, ho avuto seri problemi con alcol e droghe e tutto era diventato pesante per me. Talvolta non riuscivo nemmeno a presentarmi alle session. Ero malata, ma poi sono riuscita a uscirne. Mi sono disintossicata.
Non dev’essere stato così semplice, congratulazioni.
Grazie. Ma non è stato un momento di svolta interiore. Non c’erano alternative. Era l’unica via percorribile e Dan ha fatto parte di quel percorso. È stata una persona profondamente importante per me, nel bene e nel male, per molti anni. Poi però, dopo la disintossicazione, ho formato una famiglia, ho lavorato su altri progetti, e le nostre strade si sono divise, musicalmente almeno. Siamo infatti rimasti amici, ma non avevamo più lavorato insieme. Poi, qualche anno fa, ecco che Dan mi manda un link: una raccolta di vecchie demo che avevamo registrato allora a cui lui aveva dato forma. Mi disse: “ricordi quando abbiamo fatto tutto questo? Bene, io l’ho completato. E ti voglio bene.” È stato come ricevere un dono immenso, perché nel frattempo la mia vita era cambiata completamente, avevo dovuto re-inventarmi da capo, imparare a vivere di nuovo. E poi qualcuno, anni dopo, ti fa questo regalo e ti dice: “Guarda cosa abbiamo fatto insieme. Ecco, è ancora qui.” È stata un’emozione profondissima. Scusate se mi emoziono ancora... Tutto Passa è proprio questo. È un disco nato da quei momenti confusi.
Questa produzione svela infatti momenti molto intimi...
Assolutamente e il brano At The End Of The World, A Dog Asleep è probabilmente il più significativo per me. È stato registrato in una sola take. Io suonavo una baritona col pedale del volume, Dan suonava il flicorno con degli effetti, e il mio cane stava dormendo accanto a noi. Abbiamo premuto Rec e abbiamo suonato. Tutto qui. Quindi sì, dentro quella produzione c’è genuinità autentica, viva.
L’ep ha una storia importante alle spalle e la si percepisce fortemente nella musica. Ti confesso che Woolly Bears è la traccia che preferiamo. Musica rigenerativa, quasi a-là Steve Reich. Quei synth un po’ sci-fi sono ipnotici... Ma in generale, tutto l’ep emana un’aura potente.
Sono felice che si sia percepito. A volte è più semplice condividere certe storie col passare del tempo, ma io sento ancora un forte legame con quel periodo. È stato un piccolo miracolo uscirne viva. Non sono una santa, sono semplicemente una persona. Ma avere qualcuno che ti vede attraversare quell’oscurità e continua ad amarti, è una cosa straordinaria.
Ha cambiato il tuo modo di fare musica? Il cambiamento radicale nello stile di vita, la visione del mondo che inevitabilmente si trasforma…
La mia vita non è sempre stata tragica, ma di certo è stata attraversata da tanto caos, tanta oscurità. E ho scritto molto di quel dolore, di quel senso di perdita, e da una parte era semplicemente l’età: a vent’anni si scrivono tante canzoni tristi. Tuttavia, anche se oggi sono una persona serena, con una bella famiglia e una vita equilibrata, quella parte di me è ancora lì. Non l’ho repressa, non credo sia giusto pensare che certe emozioni siano negative e quindi da evitare. Semplicemente le accolgo, ci lavoro su. Le trasformo in musica. Non lascio che prendano il controllo della mia vita, ma nemmeno le ignoro. Depressione, paura, malinconia, confusione… convivono con la gioia, la casa, i miei figli. Sono parte di me. Solo che ora sono io a guidarle, non il contrario.
E probabilmente anche la chitarra, ogni tanto, ha una volontà propria.
Sempre! Io magari ho l’idea di comporre una cosa e la chitarra mi porta da tutt’altra parte.
Parliamo un po’ della musica strumentale. Senza una voce, senza le parole, ci sono altri mezzi per dipingere un’emozione e creare paesaggi sonori?
Amo tutta la musica e ci sono cantanti che mi hanno cambiato la vita. Ma la musica strumentale ti fornisce un minor contesto e meno mezzi per esprimerti. E questo, per me, è potente. Mi entra nella testa, smuove cose, apre spazio a pensieri che magari non sapevo nemmeno di avere. La musica strumentale mi dà l’opportunità di arrivare alle emozioni più profonde. Non parlo quindi del “mi ha lasciato, che giornata di merda”, ma esprimo qualcosa di più viscerale. Intensità pura. E anche la gioia più sincera. La musica è un linguaggio emotivo. Dopo aver inciso alcuni dischi cantati, mi sono resa conto che non era più ciò che volevo fare. Non mi rispecchiava. Non era il meglio che potevo offrire come musicista. Mi è capitato di sentire storie incredibili da parte di chi ha ascoltato la mia musica: momenti profondi, esperienze di vita che si sono intrecciati proprio con le mie composizioni. Non sono sicura che sarebbe accaduto se quei brani avessero avuto un testo tipo: “questa canzone parla di una ragazza che mi ha lasciata e bla bla bla...”
Come è cambiato il tuo approccio alla chitarra rispetto a quando hai cominciato? E quello che ricevi oggi dallo strumento è diverso rispetto a un tempo?
Domanda interessante. Tutto è cambiato. Ovviamente, quarant’anni di vita trasformano ogni cosa, ma se parliamo nello specifico della chitarra, beh… trent’anni fa avevo quindici anni, stavo scoprendo il fingerstyle e iniziavo a scrivere musica. Suonavo anche batteria e basso in alcune band, ma cominciavo a sviluppare una dimensione interiore molto seria come chitarrista. Ed era tutta per me. Non c’era nessuna prospettiva di carriera, nessuna meta precisa. A volte mi chiedo se tutto sia nato solo dal bisogno di tenere le mani occupate! [ride] La verità è che ciò non è mai cambiato: sono ancora affascinata, quasi stregata, dalle infinite possibilità che offre la chitarra. Sono colpita da come certi musicisti riescano a raggiungere livelli di eccellenza esplorando la chitarra. È un mondo infinito. Suonare la chitarra per il solo gusto di farlo, o anche solo prenderla in mano e toccarla, mi porta ad attivare la concentrazione... talvolta interrotta da mia figlia di undici anni o da mio figlio di otto! I bambini sono una forza potentissima contro il tentativo di concentrarsi.
Recentemente sei impegnata anche con uno spettacolo di musica multimediale, ce ne parli?
Si chiama “Bugs” ed è uno spettacolo che partirà in tour negli Stati Uniti quest’autunno. È folle, totalmente folle. Il mio intento era creare qualcosa che potesse piacere anche agli adulti che accompagnano i bambini. Perché, diciamocelo, di intrattenimento per l’infanzia ce n’è tanto, ma non sempre è coinvolgente per chi ha superato i dieci anni! Così ho creato “Bugs”. C’è uno schermo a forma di bruco alle mie spalle, la chitarra è mappata con proiezioni, c’è un tamburo che parla, un ukulele a forma di insetto che si illumina da dentro, tutto è programmato: suono una nota e compare una lucciola, batto il tamburo e si accendono le antenne del bruco… è assurdo.
Preparare “Bugs” dev’essere più impegnativo rispetto a un tour da musicista...
Assolutamente. È stata la sfida più grande della mia carriera, un vero e proprio percorso di apprendimento. Da un lato, c’è da dire che è incredibile: ho avuto l’idea e in meno di due anni è diventata uno spettacolo completo, pronto per andare in giro. E se pensi che si tratta di qualcosa più vicino al teatro che non a un concerto, è un traguardo notevole. Il teatro, di solito, ha tempi molto più lenti. Anche se in apparenza è un concerto, dietro c’è un lavoro di coordinamento enorme: imparare lo spettacolo, rispettare le posizioni sul palco mentre suono, spostarsi tra batteria, ukulele, effetti, chitarra... Far sì che tutto accada in tempo reale con i video proiettati, lavorare con i creativi, i designer, la squadra di produzione: è stato travolgente. Cambiare una nota o un passaggio è anche semplice, ma se è necessario modificare una scena video, bisogna aspettare anche quattro giorni. È un lavoro faticoso, senza format preesistenti a cui fare riferimento, ma alla fine quel che faccio è mettermi in situazioni scomode. Ed è lì che riesco a esprimermi meglio.
Viste le connotazioni elettroniche dei tuoi ultimi lavori e la produzione multimediale di “Bugs”, ti stai concentrando su qualcosa di specifico riguardo agli effetti?
Negli ultimi dieci anni ho cambiato parecchio il mio approccio agli effetti. Non uso pedali tradizionali. Lavoro con MainStage di Logic per organizzare e gestire i plugin e ho un piccolo footswitch che mi permette di scorrere su e giù per la catena. Il cuore del mio approccio, però, è il pedale d’espressione. Per esempio, imposto un riverbero di base, anche molto semplice, e poi ci mappo sopra un vibrato molto sottile. Invece di accendere o spegnere l’effetto, lo posso modulare in modo fluido. E questo tipo di sottigliezze quel che mi interessa oggi. Mi piace l’idea che l’ascoltatore si chieda: “L’ho sentito davvero? C’era o me lo sono immaginato?”
Una transizione più morbida, più organica...
Esatto. Un Reverse Reverb appena accennato, che arriva come un sussurro. È questo il tipo di attenzione che dedico agli effetti oggi.
Parliamo del setup attuale? Immaginiamo che la tua Ovation signature sia sempre con te...
Esatto! Come tutte le Ovation, suona benissimo e ha un’estensione sulle basse che adoro. Posso accordare la chitarra in Si standard e ottenere un suono incredibilmente profondo e avvolgente. È pazzesco a pensarci. È semplicemente una chitarra che suona senza sforzo. Risponde in modo sensibile a qualsiasi cosa tu faccia, con una naturalezza incredibile. Il top in abete è una vera e propria tavola-sensitiva per qualsiasi tipo di intervento ritmico/percussivo e in quanto al fondo, come si sa è in Lyrachord e ha quel suo famoso shape bombato e così confortevole. Io dico sempre che questa chitarra è una parte fondamentale del mio suono, soprattutto con le accordature basse.
In fase di progetto, avevi in mente la tua Ovation Signature in ogni dettaglio?
Non tanto sul piano tecnico, considerato il proverbiale know-how del marchio. Dal punto di vista estetico, invece, desideravo essenzialità e linee pulite. Non ho voluto i segnatasti lungo il manico perché tendono a distrarmi, mentre ho chiesto un piccolo dettaglio estetico al 12esimo tasto: una piccola corona da re che può condurre al gioco di parole con il mio cognome, King.
Kaki, sappiamo che tra poco suonerai qui in Italia: sei entusiasta?
Certo! A settembre sarò a Pordenone, Bologna, Milano e Roma. Non vedo l’ora di essere di nuovo nel vostro Paese, sono sicura che sarà un’esperienza incredibile come quelle del passato!
Allora ci vediamo presto, grazie per la chiacchierata!
Grazie a voi, è stato un vero piacere.
Ovation Kaki King Signature Satin Black – Shape: Single Cutaway – Catenature: Scalloped-X –Top: Sitka AA, massello – Body: Deep Contour Lyrachord GS – Scala: mm 642 – Manico: Mahogany/Maple (5 pcs) – Tastiera: Ebony – Radius: 10” – Capotasto: mm 42,8 – Meccaniche: die-cast, Black – Ponticello: Ebony – Elettronica OCP 1K pickup/OP-Pro Studio Preamp – Corde: Adamas Coated Phosphor Bronze Light (012-053) – Custodia
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