LINKIN PARK One More Light BRAD DELSON

di Steve Rosen
25 aprile 2020

intervista

LINKIN PARK
BRAD DELSON
One More Light
Se prendete tutti i colori a vostra disposizione e li mescolate, avrete probabilmente fra le mani qualcosa di nuovo ed indefinibile. In un certo senso questo è ciò che i Linkin Park hanno fatto con One More Light, il loro settimo album uscito il 19 maggio 2017...

“Uno degli obbiettivi principali in termini di arrangiamento e stile di questo album, era quello di comprendere che non esiste genere musicale che non si possa mescolare…” – ci ha detto Brad Delson (classe 1977), il chitarrista della band californiana – “nulla di diverso da quello che abbiamo fatto con il nostro primo album, o anche semplicemente con il nome della nostra band che originariamente si chiamava Hybrid Theory. Ciò che volevamo fare ora era semplicemente prendere tutte le nostre influenze, mescolarle, e realizzare qualcosa che ci sarebbe piaciuto ascoltare in macchina mentre tornavamo a casa dallo studio!”

Il nuovo album della band mette insieme parecchi nuovi ingredienti: per la prima volta, autori esterni hanno contribuito alla stesura dei brani ed anche il processo di registrazione si è svolto in maniera diversa rispetto al passato.
Con Brad Delson abbiamo discusso del nuovo processo creativo dei Park...

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che ha portato alla realizzazione di One More Light.

LINKIN PARK lineup
Chester Bennington (co-lead vocal) – Mike Shinoda (co-lead vocal/rhythm guitar) – Brad Delson (lead guitar) – Dave Farrell (bass) – Rob Bourdon (drum) – Joe Hahn (turntable/sample)

Il modo in cui avete registrato One More Light è stato molto più difficile da affrontare rispetto ai dischi passati. Ci spieghi il perché?
Rick Rubin ha detto che il modo in cui affrontiamo la scrittura dei brani è molto più vicina all’hip hop piuttosto che al rock. Credo che questo significhi che non ci basiamo su delle jam. Scriviamo la musica prima, e solitamente aggiungiamo le parti vocali soltanto alla fine, così Mike Shinoda e Chester Bennington si devono prendere carico delle melodie.

E tutto questo è cambiato per il nuovo album?
Quando abbiamo iniziato a lavorare con Rick Rubin, ormai qualche anno fa, ci pose davanti ad una sfida: ci chiese di provare a scrivere il testo e la melodia come primi elementi, per poi completare il brano successivamente. Abbiamo ignorato questo approccio album dopo album, ma nel momento in cui abbiamo iniziato a lavorare a One More Light ci siamo chiesti se non fosse il caso di provare a fare come Rubin ci aveva chiesto. Indubbiamente è qualcosa di molto lontano dalla nostra comfort zone, ma questo ha portato ad un processo creativo di collaborazione, abbiamo avuto molti co-produttori, diversi cantanti, e molti autori. Ci è sembrato molto strano avere persone in studio in grado di finire un intero brano per noi.

Di solito i Linkin Park non lavorano così velocemente?
In alcuni casi abbiamo speso mesi e mesi sperimentando con i suoni prima di poter avere un brano completo. In questo caso invece ci siamo buttati in una nuova avventura e ci siamo anche divertiti molto, ha portato una ventata di ossigeno e di creatività al gruppo. Questa nuova modalità di lavorare ai brani ci ha portato al realizzare un album molto personale.

In che senso?
L’impeto di ognuno di noi si faceva sentire ogni giorno durante le registrazioni, e le nostre emozioni venivano fuori in continuazione. Abbiamo scritto circa settanta brani e poi abbiamo selezionato quelli che ci sembravano i migliori e la cosa più difficile è stata comprendere quale tipo di musica potesse andare con quei testi. Ci siamo divertiti moltissimo, ed abbiamo sperimentato cose che non sono mai successe con i precedenti album.

Heavy è il primo singolo estratto dall’album, e onestamente non suona davvero simile a ciò che i Linkin Park hanno registrato in passato. Dove avete tratto ispirazione per quel brano?
L’abbiamo scritto io, Mike ed altri due compositori che si sono aggiunti successivamente. Abbiamo parlato di ogni parola del testo, e di ogni melodia, per due o tre ore. Il brano è nato velocemente perché è scaturito da qualcosa di viscerale. Dopo quella prima sessione sono serviti diversi mesi per terminare i dettagli ed i suoni definitivi.

Come è andata quando si è trattato di registrare le chitarre per questo album?
Sicuramente le chitarre su questo album giocano un ruolo diverso rispetto a quello che rappresentavano su The Hunting Party, anche in questa occasione mi sono impegnato allo stesso modo. Le chitarre su questo lavoro sono molto più discrete, e hanno più che altro il compito di supportare la voce. Quindi, anche se ci fossero molti strati di chitarra, non sarebbero necessariamente ciò che caratterizza l’intero album.

I Linkin Park si sono resi famosi per aver cambiato spesso stile e direzione. Come hai adattato il tuo stile di album in album?
Credo i continui cambi di rotta abbiano funzionato perché è qualcosa che siamo sempre stati abituati a fare. Che sia la combinazione di elementi diversi, oppure sia il remix di ogni brano, c’è sempre stato qualcosa di appartenente al nostro DNA in tutti gli album della band. Quindi, per certi versi, è ironico il discutere riguardo a quanto diverso sia un album dal precedente. Con The Hunting Party ci siamo presi dei gran rischi, e lo stesso abbiamo fatto con questo nuovo album, cercare nuove sfide è parte del nostro modo di vedere la musica.

Ci parli della registrazione delle parti di chitarra acustica in Sharp Edges?
Il nostro ingegnere del suono Ethan Mates possiede questa bellissima chitarra acustica, della quale non ricordo il brand… è uno strumento unico nel suo genere ed infatti io ed uno dei nostri collaboratori (Ed White) ce ne siamo innamorati. Ed è inglese ed è stato con noi semplicemente per lavorare, ma mentre era in studio ha trovato una chitarra simile a quella di Ethan Mates a Riverside (una città a 90 miglia di distanza da Los Angeles). Ha guidato fino a Riverside per comprarla ma quando è tornato in studio ha scoperto che non suonava assolutamente come quella di Ethan.

Succede praticamente ogni volta…
Ha provato in ogni modo a farla suonare come quella che avevamo in studio, ma non ha trovato il verso di riuscirci. Quello che ascolti su Sharp Edges probabilmente sono semplicemente io che accompagno la melodia ancora quando il brano era in fase di scrittura. Abbiamo poi aggiunto molti altri strati di suoni e chitarre, ma quella parte di acustica probabilmente è ancora la prima take che abbiamo fatto.

Sorry For Now sembra avere un approccio ancora diverso riguardo alle chitarre…
Tutto si riconduce al concetto di non porsi limiti nel momento in cui si vogliono mettere sul tavolo le nostre influenze personali, quindi sì, le chitarre di quel brano sono molto particolari, forse non heavy quanto lo erano in passato, ma i suoni sono sempre abbastanza pesanti.

Solitamente come registri le tue chitarre?
Il processo è un continuo sviluppo, non divido mai le cose fra tracce preliminari e tracce definitive. Se la prima take è buona e funziona nelle dinamiche del brano, non vedo perché dovrei registrarla cercando di renderla idealmente perfetta. Quando aggiungiamo altri strati al brano non eliminiamo mai la prima traccia registrata, che diventa infine il cuore del brano stesso.

Ed anche questo ha a che fare con quanto dicevi riguardo al lavorare per mesi sui suoni…
Ho scoperto che quelle prime, grezze, tracce, nel tempo formano un letto emotivo per tutto ciò che si va a sovrapporre in un secondo momento, e senza di esse tutto cade a pezzi. La domanda principale quando registro una traccia è sempre la stessa: “potrebbe essere questa la firma sonora del brano?”

Quando inizi a lavorare sulle chitarre le voci di Chester e Mike sono già registrate?
Nella maggior parte dei casi no, ma questa volta abbiamo lavorato in maniera diversa, e quindi abbiamo aggiunto tutti i suoni a delle semplici tracce di accordi che accompagnavano le voci.

Molti direbbero che questo è il modo corretto di fare le cose, perché nulla è importante quanto la voce…
Hai ragione, ed inoltre questo permette alle chitarre di completare il lavoro delle linee vocali. Ciò non vuol dire che le chitarre non siano importanti, semplicemente devono aiutare la voce al rendere al meglio il brano.

Quando hai iniziato a suonare, hai mai sognato di essere un chitarrista solista di quelli che si lanciano in lunghi assoli con i capelli al vento?
Sono cresciuto ascoltando molto i Guns N’Roses e i Metallica, ma anche molto dei classici come gli Zeppelin, ed ovviamente ascoltando certa musica era naturale essere affascinato dal mito della rockstar. Piano piano sono passato però ad interessarmi più alla melodia ed alla scrittura, e successivamente è venuta la sperimentazione e la ricerca di qualcosa di nuovo e ancora inespresso. Questo è ciò che mi ispira oggi, e provo sempre a portarlo all’interno della band perché possa esprimersi in nuove maniere.

E cosa ti ispira quando inserisci un assolo in un brano?
Penso sempre a cosa possa essere complementare al resto della band. Ciò che interessa è quello che serve al brano. The Hunting Party contiene un assolo per ogni brano, questo perché quel tipo di canzoni lo richiedevano. Quindi in definitiva non faccio altro che seguire la personalità dei brani stessi, cercando di dialogare con i miei compagni di gruppo senza mai essere d’intralcio.

Com’è suonare insieme a Mike Shinoda?
Nei primi due album abbiamo messo nei credits gli strumenti che ognuno di noi aveva suonato, ma poi abbiamo smesso di farlo, perché non c’è limite al contributo che possiamo apportare all’album. Tutti ci incoraggiamo a fare il meglio di ciò che possiamo, senza distinguere il nostro ruolo in maniera categorica.

Parlando di sperimentazione, quando avete scritto Hybrid Theory avevate chiaro il tipo di album che volevate registrare?
No, assolutamente. Non sapevamo neanche chi fossimo. C’era molta pressione su di noi, la label voleva che suonassimo molto più simili ad altre band in circolazione così da sfruttare l’ondata di successo. Alla fine ci siamo imposti per registrare l’album che volevamo realizzare senza preoccuparci di cosa sarebbe successo a livello commerciale. Con il senno di poi posso dire che in tutta la nostra carriera siamo sempre stati bravi nel distaccarci dalle pressioni esterne.

Con Minutes to Midnight avete lavorato per la prima volta con Rick Rubin.
Rick è stato una persona fondamentale per la riuscita dell’album, e si è dimostrato anche un fantastico mentore creativo. Ci ha insegnato cose che ora sono indelebili nelle nostre menti quando ci troviamo a registrare e scrivere un nuovo album. Ci ha aiutato a pensare fuori dagli schemi e ad allontanarci da quello che aveva avuto successo in passato. Ci ha illuminato riguardo a degli interessi musicali che non sapevamo di avere, e per questo ci ha permesso di crescere.

Infine, come vi siete sentiti quando Chester è andato a cantare con gli Stone Temple Pilots?
Chester è sempre stato chiaro: la sua devozione e il suo attaccamento emotivo e professionale ai Linkin Park è completo. Credo abbia il nome del gruppo scritto su metà del suo corpo, quindi quando ci ha detto degli Stone Temple Pilots non ci sono state preoccupazioni per noi. A lui, come anche a tutti noi, piace molto suonare con altre persone, è un musicista e quindi è qualcosa di naturale. Spesso lo ascoltiamo cantare con molte altre persone, ma la priorità sono sempre i Linkin Park. Sono molto grato di averlo come compagno di gruppo, credo che senza di lui, o senza Mike, non saremmo mai riusciti a fare ciò che abbiamo fatto. Come sempre sulla carta è facile dire di poter servire il brano e le parti vocali con la chitarra, ma la realtà si può dimostrare molto diversa. Con Chester e Mike non ci sono mai problemi, ed io mi sento davvero fortunato a poter lavorare con loro.

Testo di Steve Rosen
Traduzione di Francesco Sicheri
Foto di James Minchin

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