THE WAR ON DRUGS I Don’t Live Here Anymore

di Umberto Poli
01 gennaio 2022

recensione

The War On Drugs
I Don’t Live Here Anymore
Atlantic
Che siano sempre in movimento, alla costante ricerca della perfetta sintesi sonora, che abbiano fatto un lungo viaggio e che ancora non abbiano alcuna intenzione di fermarsi un istante, restando fluidi e inafferrabili, splendidamente eterei, questo è certo. Ed è forse la caratteristica che più salta all’occhio, se non all’orecchio, dei tanti fan della band di Adam Granduciel. La carriera dei The War On Drugs, dal primo album in studio (Wagonwheel Blues, 2008, con Kurt Vile alle chitarre e alla voce) ad oggi, ha intrapreso un percorso a tappe variegato e affascinante, costellato di cambi di lineup e premi importanti (tra cui un Grammy Award nel 2018), di colori e sperimentazioni (Slave Ambient, 2011), di una maturità pazientemente acquisita (Lost In The Dream, 2014; A Deeper Understanding, 2017). A ribadirlo con fermezza, intervengono le dieci canzoni dell’ultima fatica discografica del gruppo, il bellissimo, tanto atteso I Don’t Live Here Anymore, rappresentato in fase di lancio dalla traccia omonima e dai singoli Living Proof e Change. I titoli in scaletta scorrono lineari e compatti, confermando quanto di buono - nel corso del tempo - è stato...

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scritto e detto sulla band originaria della Pennsylvania. La formazione appare sicura, ben rodata; il sound è quello tipico, quello a cui il vasto pubblico dei Drugs ha fatto la (piacevole) abitudine e che, in qualche modo, ormai ci si aspetta, quasi come se di questi tempi incerti la loro impronta rock suonasse come una  sorta di rassicurazione, un caloroso abbraccio in forma di note e parole, una conferma che non stupisce e al tempo stesso brilla di assoluta autenticità: tale da far gioire sia gli amanti delle corde (acustiche e elettriche) sia i cultori di effetti e pedaliere sia infine gli appassionati di sintetizzatori e atmosfere smaccatamente Eighties, con quella componente nostalgica ormai evidente nelle recenti produzioni di John Mayer e Coldplay… giusto per limitarci ad alcuni dei nomi di punta del panorama mainstream.

I Don’t Live Here Anymore è un disco notevole, un passo coerente e maturo, registrato in maniera ineccepibile, calibrato per quel che concerne la tracklist, ricco di spunti interessanti e canzoni ispirate. Un disco capace di farsi apprezzare sulla lunga distanza, ascolto dopo ascolto, con il passare del tempo; un’opera coraggiosa che giunge sul mercato a sette anni dall’acclamato Lost In The Dream , a quattro dall’altrettanto epocale A Deeper Understanding , due capisaldi all’interno del repertorio del gruppo, e ad appena un anno da quella preziosa summa di registrazioni dal vivo intitolata semplicemente Live Drugs del 2020.

Ciò non toglie che l’album riesca a ritagliarsi uno spazio di rilievo nel cuore dell’ascoltatore, facendo emergere con sofferta schiettezza le luci e ombre di un’epoca, quella in cui viviamo, segnata irrimediabilmente dalla pandemia e da un radicale sconvolgimento delle proprie (umane) certezze: I was lying in my bedA creature void of formBeen so afraid of everythingI need a chance to be rebornI never wanted anythingThat someone had to giveI don't live here anymoreI went along the wind

I momenti migliori del lavoro – così uniforme da risultare costruito a tavolino, secondo gli studiati dettami della più tipica struttura circolare – sono da ricercare nella traccia di apertura, la già citata (e per certi versi “dylaniana”) Living Proof, con il suo strumming regolare e i morbidi interventi del pianoforte su cui si eleva la voce del leader, mai come in questo caso malinconica, avvolgente, ricca di sfumature; nella titletrack, irresistibile e di facile presa fin dalle prime battute; nel ritornello accattivante di Old Skin; nei cinque minuti, comprensivi di lunga coda strumentale, della ritmata Occasional Rain , posta in chiusura. You've been moving much too fastYou never know just where it ends

È la storia, il destino dei Drugs e del loro capitano, Adam Granduciel. Inarrestabili, sinuosi, violenti come una tempesta e delicati come le gocce della rugiada mattutina, poetici ed evocativi ma comunque diretti, sinceri, a tratti sognanti; ipnotici come le improvvisazioni cui sono soliti lanciarsi sul palco, imprevedibili come le contaminazioni che rendono così unica e riconoscibile la loro firma e che – lo si ritrova anche nei versi qui presentati del brano che sigla la fine di I Don’t Live Here Anymore – non si sa mai quali vie possano scegliere nè quando (e se mai) arriveranno al capolinea. D’altronde, per citare T.S. Eliot, «solo chi rischia di andare troppo lontano avrà la possibilità di scoprire quanto lontano si può andare». Non ci resta dunque che seguire i The War On Drugs, metterci comodi, abbandonare il corpo, lasciarci trasportare. Non importa dove, quel che conta è farlo.

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