MATT BERNINGER Serpentine Prison

di Umberto Poli
03 gennaio 2021

recensione

MATT BERNINGER
Serpentine Prison
Concord
Una mano che penzola dal retro di un divano. Morbida, flessuosa, galleggiante. A farle da sfondo sono le tinte calde e vellutate di un pallido verde sbiadito. Quella mano è la mano destra di Matt Berninger, leader dei The National, giunto nel drammatico 2020 al suo (sorprendente) debutto solista. Un traguardo raggiunto con lo stile che da sempre lo accompagna, con quelle pose scomposte, sbilenche, liquide, a cui i fan della band dei fratelli Aaron e Bryce Dessner sono ormai più che abituati.

Basta osservare con un pizzico di attenzione e curiosità l’artwork dell’opera. Gli occhi del protagonista persi in un punto imprecisato di due altrettante indefinite stanze che assomigliano alla prigione evocata dal titolo. Una prigione fatta di spire, il cui nome da solo rende palpabile l’idea del soffocamento e dell’impossibilità di fuga: una parete che gli blinda le spalle, Berninger su una sedia, chiuso in un angolo (front cover); un altro muro, Berninger sul già citato divano, spalle al pubblico (retro).

Serpentine Prison è questo, un universo sonoro tanto affascinante quanto ombroso, tanto poetico quanto chiuso in se stesso, onirico, misteriosamente privato, intimo. C’è smarrimento lungo i sinuosi corridoi sonori che danno vita...

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al disco (tell her I’m missing in a serpentine prison ) e, assieme ad esso, un impotente senso di frustrazione (it’s all for nothing again ), schegge di paura (I’m so afraid your love is leaving me / it never tells me where it goes ), incertezza (I don’t know how to go on ), rassegnazione (I don’t see no brightness / I’m kinda startin’ to like this ), sorde e ripetitive invocazioni d’amore (please come back, baby, make me feel better ).

L’esordio in studio di Berninger è un rifugio per cuori infranti, romantici viaggiatori, anime in pena. Le distanze tracciate dalla penna dell’autore paiono immense, incolmabili (I feel like I’m as far I can get from you), così come qualsivoglia tentativo di ricercare quel che in ogni dove, tra i solchi di Serpentine Prison, è dipinto come un pesante velo di lacerante incomunicabilità: they’ll never understand you anyway… ascoltate la splendida Silver Springs, cantata in duetto con Gail Ann Dorsey, e capirete. È un viaggio senza ritorno, quello di Mister Berninger. Non parlate, non piangete, correte lontano. Man mano vi saranno date tutte le informazioni del caso. Durante la corsa, però, non vi resta che un quieto abbandono all’avvolgente timbro baritonale della voce in un dolce “naufragar” di leopardiana memoria.

L’album, registrato in California, patria d’adozione del frontman dei The National, e affidato alle mani sapienti di Greg Calbi (Sterling Sound) in fase di mastering, suona compatto e organico dalla prima all’ultima traccia: l’apripista My Eyes Are T-Shirts, One More Second, la già citata e centrale Silver Springs, la titletrack posta in chiusura, ogni canzone brilla di luce propria, suonando convincente, autentica, a tratti – se vogliamo – luciferina come la lingua biforcuta che spunta in forma d’ombra dal mocassino ritratto nell’immagine di copertina. Serpentine Prison è un disco di brani magistralmente scritti e arrangiati. Ciliegina sulla torta, l’organo e la produzione del veterano Booker T. Jones ad impreziosire il tutto di un’aura senza tempo.

Che ci si trovi dinanzi a un piccolo capolavoro? Forse. Quel che è sicuro è che di Matt Berninger, mai così ispirato e coinvolgente come in questa inedita veste solista, si parlerà ancora a lungo.

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