Jimbo Mathus & Andrew Bird These 13

di Umberto Poli
18 maggio 2021

recensione

Jimbo Mathus & Andrew Bird
These 13
Thirty Tigers
Quanta magia, quante combinazioni, quanti suoni possono essere originati dal perfetto connubio delle quattro corde di un violino e delle sei corde di una chitarra acustica? Ce lo insegnano Andrew Bird e Jimbo Mathus con il loro nuovo interessantissimo These 13. Come? Semplicemente suonando, palesando - nota dopo nota, passaggio dopo passaggio - tutta la voglia di condividere un progetto nato ed arrangiato in termini di purezza, rispetto delle radici, idee, freschezza e spontaneità. Insomma, These 13 è il tipico diamante allo stato grezzo, la chicca da collezionisti ed appassionati della buona musica.

I due autori non avevano ancora avuto modo di firmare un’opera a quattro mani, riversando in un pugno di tracce la loro amicizia e la loro affinità artistica, e l’occasione è arrivata con i tredici titoli di questo loro album delizioso all’orecchio, in grado di confermarne il valore in termini di qualità e ispirazione, fin dai primi istanti.

Oh, Lord. Bless these poor lost souls... un inizio col botto, con un ritornello che suona come una disperata invocazione. Ma andiamo a scavare a fondo e scoprire qualcosa in più sulle “povere anime” cui il testo fa...

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cenno: a partire da quelle dell’inedito duo di cantanti e polistrumentisti targato Mathus & Bird. Il primo, ribelle, libero da ogni schema, fiero esponente del profondo sud degli Stati Uniti, autodidatta, ed il secondo decisamente più formale e schematico, didascalico e lineare (instradato al rigido metodo didattico Suzuki fin dalla tenera età di 4 anni).

Entrambi abituati ai rispettivi modi di vivere e interpretare la musica, entrambi consci di poter funzionare bene in squadra anche con una formazione ridotta all’osso viste le comuni esperienze nel progetto swing-revival Squirrel Nut Zippers, fondato nel 1993 da Mathus e dalla moglie, Katharine Whalen.

Se dunque These 13 non poteva mostrare introduzione migliore, con la già citata Poor Lost Souls, il viaggio prosegue e progressivamente si ha la sensazione di fluttuare con l’immaginazione a bordo di una zattera, sulle acque del fiume Mississippi, al fianco di due novelli, scapestrati e geniali Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Come per i romanzi di Mark Twain, inoltre, anche qui il desiderio di divorare le pagine si fa bruciante; la voglia di vedere come andrà a finire cresce di capitolo in capitolo, o meglio, di canzone in canzone.

Jack O’ Diamonds è blues allo stato puro, uno dei picchi dell’intera scaletta assieme a Sweet Oblivion . Un brano, questo, che conquista all’istante con i suoi clap, i suoi incastri ritmici, le corde che sfrigolano e una coda impossibile da dimenticare.

Stesso discorso per la stupenda High John - più lenta ma altrettanto irresistibile - e una Bell Witch da ballare assaporandone ogni nota al sopraggiungere delle luci del crepuscolo, quando fuori fa ancora caldo e il morbido soffiare della brezza aggiunge quel brivido speciale ad un’atmosfera già pressoché perfetta. Decisamente riuscite anche la dolce ballad Encircle My Love, Beat Still My Heart con il suo dolente mood da traccia di confine, impregnata di lacrime e polvere quanto basta, e la conclusiva Three White Horses And A Golden Chain, che suggella poeticamente la fine di un disco tanto prezioso quanto raro. Oggi più che mai.

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