Eddie Van Halen, l'ultimo guitar-hero

di Steve Rosen
31 ottobre 2020
Con Eddie Van Halen se ne va una leggenda. Facile abusare di questa definizione, ma Eddie Van Halen era già una leggenda! Lui che ha cambiato i connotati del rock e del guitar playing, ispirando e attirando intere generazioni. Oggi Eddie non è più tra noi, ma c’è da giurare che l’eredità che ci ha lasciato, cavalcherà il corso del tempo. {}
06 ottobre 2020

Non so bene cosa scrivere di Edward, però posso dirvi come mi sento: mi sembra che il mio cuore stia provando a divorare sé stesso. Erano anni che non parlavo più con Edward, ma questo non rende la sua scomparsa meno devastante. Qualche mese fa l’ho chiamato e gli ho lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica, ma non ho mai avuto una sua risposta. Ora non la riceverò mai più.

Non starò qui a raccontarvi di come abbia cambiato il vocabolario della chitarra rock o di come da solo abbia ridefinito i canoni secondo cui molte chitarre elettriche vengono costruite, o ancora di come abbia influenzato generazioni e generazioni di chitarristi a venire forse più quanto chiunque altro abbia mai fatto nella storia della chitarra. Tutto questo l’ho già raccontato molte...

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altre volte.

Quello che vi dirò è che per molti anni siamo stati buoni amici. Vi dirò che Eddie era una persona generosa, una delle più divertenti ed oneste che io abbia mai conosciuto, e vi dirò che ogni volta che ero con lui ero sempre in sua adorazione. Vi dirò anche un’altra cosa: ho jammato con Edward Van Halen. Una sera ero a casa sua – non era raro che lui mi chiamasse per stare un po’ insieme – e non sapendo bene cosa fare siamo andati nei suoi 5150 Studio.

C’erano chitarre su tutto il pavimento ed in ogni angolo, e la sala di controllo era illuminata dagli schermi e dalle luci dei rack come se fosse la cabina di controllo di un aereo. Eddie mi ha offerto una sua chitarra, e con grande semplicità mi ha detto “Suoniamo un po’.” Cercando di sfoggiare uno sguardo anche minimamente sicuro, mi sono detto “Ma certo, suoniamo un po’ con Eddie Van Halen… Posso farcela.”

Io me ne stavo lì immobile con la chitarra in mano, mentre Ed attaccava un basso ad uno degli amplificatori. Si avvicinò al Marshall era collegata la mia chitarra e iniziò ad aggiustare i volumi, poi però - vedendo che mi ero come congelato - mi apostrofò con una di quelle frasi che era solito tirar fuori in momenti come quello: “Vuoi suonare quella fottuta chitarra?”

Quando Ed iniziò a suonare qualche nota sul basso mi resi conto di essere completamente fottuto, ero davanti a Medusa e la stavo guardando negli occhi… Non avrei mai potuto suonare davanti a lui perché solamente vederlo cazzeggiare con il basso era a dir poco straordinario.
Eddie non mi disse altro, eppure un suo sguardo mi fece capire che anche se mi trovavo di fronte ad uno dei più grandi chitarristi mai esistiti, potevo lasciare le mie paure da parte e suonare. Proprio per quello sguardo lo adorai ancora di più.

Presi coraggio e alzai il volume di quella Stratocaster martoriata e modificata da Eddie, e con un po’ di fortuna tirai fuori un accordo più o meno accettabile. Quello che uscì dal Marshall di Edward fu il suono dei suoni, quello che ancora oggi ricordo come qualcosa di divino. Semplicemente il suono di chitarra più bello mai ascoltato, se Dio avesse suonato la chitarra elettrica probabilmente avrebbe tirato fuori esattamente QUEL suono. Nella mia vita ho suonato molte chitarre, ho posseduto amplificatori di ogni tipo, da Marshall a Fender passando per ogni brand nel mezzo, ma non ero mai stato neanche vicino a 1000 km da un suono come quello.

Avendo preso un po’ di confidenza tirai un’occhiata a Eddie per capire sé stessi facendo qualcosa di anche solo minimamente accettabile, e lui mi rispose con uno di quei suoi sorrisi capaci di scaldare il cuore. Era tutto quello che mi serviva. Continuammo a suonare per un’oretta, e così proposi a Eddie un riff che avevo scritto tempo prima per un mio brano. Fu qualcosa di fantastico, perché in quel preciso momento mi fu concesso di entrare nel mondo compositivo di Edward. Lo ascoltai muoversi dentro e fuori il semplice riff che gli avevo suonato, affinando e mescolando le idee fino al momento in cui tutto sarebbe stato “pronto”. Nel giro di un’ora Eddie aveva preso il mio riff e l’aveva fatto diventare qualcosa che io non avrei mai potuto immaginare di ottenere.

Senza dirmi nulla Ed aveva avviato la registrazione poco prima che iniziassimo a suonare e così, dopo aver messo un punto conclusivo alla nostra jam, mi porse il nastro contenente tutto ciò che avevamo suonato fino a quel momento. Fu un gesto perfetto, perché era perfettamente consapevole del suo status e di cosa quella registrazione rappresentasse per me. Una delle cose più belle che posso dire riguardo a Ed è che non si è mai vantato di essere uno dei più grandi chitarristi della storia, mai una volta, mai e poi mai. In quell’occasione, per la durata di una sera, mi aveva fatto sentire un suo pari, per quanto assurdo questo possa sembrare.

In aggiunta ad una jam già di per sé inarrivabile, Edward iniziò a farmi qualche domanda riguardo a quel riff finendo per poi dirmi che avrebbe potuto trovare spazio in uno dei futuri album dei Van Halen. Sorrise e strizzò l’occhiolino, ed io mi sentii a settimo cielo. I Van Halen non lo registrarono mai, e l’unico modo per ascoltarlo è rimasto quel nastro regalatomi da Eddie dopo la nostra jam session. Fin dalla sera di quella jam sapevo benissimo che le possibilità che i Van Halen usassero realmente quel riff erano le stesse che Jennifer Connelly accettasse di uscire con me: zero.

Sapete cosa vi dico? Per una sera, una sola, fottutissima, sera, ho suonato la chitarra insieme a Eddie Van Halen. In questi giorni ho riascoltato quel nastro ripetutamente, e ogni volta mi sono detto che il playing di Ed è ancora oggi qualcosa di fuori da ogni tipo di regola.
Purtroppo sono passati molti anni dall’ultima volta che ho parlato con lui. Ci siamo scontrati anni fa a causa di quello che io ho pensato fosse un fraintendimento, ma Eddie non ha mai creduto necessario il voler riallacciare il nostro rapporto. Il solo pensiero mi fa stare male ancora oggi.

A volte, nel corso degli ultimi anni, ho ripensato a lui ed a quello che è successo alla nostra amicizia. Alcune volte mi è quasi sembrato di non averlo mai conosciuto e nemmeno intervistato. La verità è che per più di dieci anni sono stati parte della sua vita, e lui della mia.

Sono grato per il tempo che ho potuto passare insieme a lui.
Mi manca moltissimo.


Steven Rosen


LA CHITARRA DEGLI DEI
Essere una delle grandi divinità della chitarra è un fardello pesante da portare, e la storia di Edward Van Halen ha saputo provare in molte occasioni il perché. La scomparsa di Eddie a causa della sua lunghissima battaglia contro il cancro - combattuta su più fronti e con tempi diversi - ci ha ricordato quanto alto sia stato il prezzo pagato per aver ricevuto in cambio un talento così sconfinato.

Dalle durissime lotte per la propria salute personale, passando per i demoni di alcool e gozzoviglie a bordo palco, senza neanche contare i continui diverbi che hanno smembrato la carriera del gruppo tra le follie di Diamond Dave e la baldanzosa vitalità di Hagar. Nel mezzo di tutto, cercando di tenere le briglie il più salde possibile, sempre e solo Eddie.

A prescindere dal fatto che piaccia o meno la musica della sua band, Edward Van Halen ha cambiato il corso della storia della chitarra (prima) e della musica rock (dopo) e questo non è discutibile. Il suo contributo? Lo stesso apportato da Hendrix e da tutti quelli che sono considerati “pionieri”, aprire alla creatività delle porte apparentemente ignorate fino a quel momento.

Chiunque voglia vedere dipinta in lui l’immagine dell’eroe perfetto, del chitarrista inscalfibile, ha sbagliato personaggio. Eddie Van Halen - proprio a partire dal suo playing - è l’anti-eroe, è cinico (soprattutto con sé stesso), e al massimo è il condottiero romantico la cui strada è continuamente intralciata dai suoi stessi sentimenti. Più di ogni altra cosa Eddie Van Halen è un reduce, uno che è sopravvissuto ai propri demoni e che ha scavalcato quel periodo infuocato della sua carriera che il mondo intero ricorda come leggendario, ma che lui invece fatica a voler contemplare anche solo per pochi secondi. Eddie Van Halen è un animo che scalpita, uno che fatica a fare i conti con i propri fantasmi e che pertanto si muove perennemente; nuota, prova, riparte e mai si ferma per paura di non restare a galla.


DO IT YOUR WAY
Fra queste pagine non troverete la storia della band più festaiola del rock, oppure la storia di come Eddie ha cambiato definitivamente il modo in cui - dal 1978 in poi - la chitarra è stata concepita all’interno della musica rock, la nostra rivista ne ha già parlato molte volte in passato e sicuramente non mancheranno i modi per farlo nuovamente in futuro. Qui, in un’occasione così triste ed allo stesso tempo così importante, celebriamo invece l’essenza più pura di Eddie Van Halen, quell’urgenza espressiva che gli ha permesso di mescolare le carte sul tavolo della musica senza mai curarsi del dover restare “entro i margini”.

Volete sapere chi fosse veramente Eddie Van Halen?
Eddie era un ribelle, una voce fuori dal coro.

Quando al ventesimo secondo di Running With The Devil il basso di Anthony viene sormontato dalla chitarra di Eddie, è facile lasciarsi infatuare dalla potenza bruta di un suono che ha saputo far vacillare ogni certezza, ma inquadrando la “bigger picture” da lontano si capirà presto che il vero motore di una musica così dirompente era l’attitudine dell’uomo che impugnava quel plettro.

A partire dall’approccio dissezionistico sfoggiato su pressoché ognuna delle chitarre che hanno segnato gli anni precedenti le prime signature, per finire poi a quella cascata di note in tapping che - spesso senza preavviso - era solita sorprendere l’ascolto di un brano, Eddie Van Halen ha sempre fatto le cose a modo suo. Il modo perfetto? Assolutamente no, soltanto a modo suo.

Van Halen I è divenuto un classico fin dal giorno della sua uscita, e questo a Eddie probabilmente non è mai andato giù. L’essere posto su un piedistallo a mo’ di santone da venerare non gli è mai piaciuto particolarmente, e questo perché quando si passa dalla fucina dell’artigiano all’essere esposti in un museo, la propria vena creativa smette di essere ascoltata. A Eddie non è mai fregato niente di essere il miglior chitarrista al mondo, non gli è mai fregato delle classifiche e gli è importanto ancor meno dei tanti paragoni che gli sono stati appioppati durante la sua carriera: Eddie è sempre e soltanto Eddie, nel bene e nel male.

Da quella prima chitarra smembrata e vivisezionata, per arrivare a quel playing che non badava certo a quale fosse il modo più appropriato di colpire le corde, Eddie Van Halen ha sempre saputo essere sé stesso. Un ribelle in un mondo rock al quale - negli anni ‘80 in particolare - piacevano molto di più le autocelebrazioni delle giocate fuori dagli schemi. Senza mai chiedere scusa per i propri difetti, senza mai curarsi di seguire il manuale, Eddie ci ha ricordato per l’ennesima volta che le regole del galateo non si sposano bene con le parole “rock ‘n’ roll.”

Se volete ricordarlo e portare avanti la sua memoria, non tentate di imparare uno dei suoi assoli nota per nota (lui stesso non ne ha mai eseguito uno allo stesso modo per due volte di fila), invece prendete la vostra chitarra, ascoltatela e capitela,fino al punto di non aver paura di storpiarla e farla diventare quello strumento che non vorrete mai più smettere di suonare.


Francesco Sicheri


EDWARD VAN HALEN BEHIND THE CURTAIN
Le grandi storie del R&R
 
Quando Edward Van Halen rilasciò sul mondo la sua devastante furia sonora grazie al primo Van Halen, i chitarristi di tutto il mondo realizzarono che era appena stata decretata la morte di tutto ciò che avevano ascoltato fino a quel momento. Il 19 febbraio del 1978, quando Van Halen uscì per Warner Records, l’architettura stessa del modo in cui un chitarrista si approcciava allo strumento cambiò per sempre. Non solo la mano destra si spostò sulla tastiera per dare forma ad una tecnica – precedentemente abbozzata in svariate forme rimaste misconosciute – che di lì in poi si sarebbe chiamata tapping, ma l’intero mondo chitarristico varcò una soglia dalla quale non sarebbe mai più ritornato. Con il suo primo album Edward aveva il livello, riscritto le pagine sacre della chitarra, cambiato completamente i giochi, e soprattutto aveva preso a calci in culo tutti gli altri chitarristi.

Di tutto ciò non avevo il minimo indizio quando ho conosciuto Edward Van Halen nel ‘78. Quella sera ero al Whisky a Go Go per ascoltare Eddie Money quando Michelle Myers mi prese per un braccio e mi trascinò per tutto il locale dicendomi che dovevo assolutamente conoscere una persona. “Godhead” era il termine che Michelle usava per dire che qualcuno era davvero cool, e sapeva bene del mio debole per la chitarra. Mentre io mi lasciavo trascinare da una parte all’altra del locale, Eddie Money stava cantando sul palco del Whisky.

Avevo già sentito parlare di Eddie – in quel momento un po’ tutta Hollywood era venuta a conoscenza del nome Van Halen – ma fino a quel giorno, nonostante avessi frequentato il Whisky e lo Starwood in maniera quasi continuativa – non ero mai riuscito a sentirlo suonare dal vivo. Non avevo ancora ascoltato la sua musica, ma soprattutto non avevo idea di quanto profondamente la persona che mi stava di fronte avrebbe cambiato il mondo della chitarra elettrica.

Eddie, questo è Steve.. – disse Michelle Myers - Steve, questo è Eddie Van Halen. Lui era magro ma muscoloso, aveva dei capelli fighissimi e soprattutto aveva un sorriso che di lì a pochi anni avrebbe ammaliato il mondo intero. Stava fumando una sigaretta – cosa che gli ho visto fare praticamente ogni volta che l’ho incontrato – e dopo avermi stretto la mano mi disse di seguirlo al piano di sopra.

Ci sedemmo su dei divanetti ed iniziammo una conversazione che sarebbe durata circa vent’anni. Per iniziare gli chiesi se preferiva essere chiamato Ed o Edward, e lui mi rispose che I miei genitori mi chiamano Edward e mio fratello mi chiama Ed. I miei amici mi chiamano Eddie… Puoi chiamarmi Eddie. Lo disse con la naturalezza che ci si aspetta da un amico di lunga data.

Parlammo di Clapton e dei Cream (del quale era un fan sfegatato), e anche di Jeff Beck (che non amava) e di Michael Monarch dei Detective, che secondo Eddie era un po’ troppo simile a Beck.

Sapevo dell’imminente uscita di Van Halen perché mi era arrivato il comunicato ufficiale della Warner Bros, e pertanto sapevo che sarebbe stato pubblicato insieme al debutto dei Rutles, a Watch di Manfred Mann, e a Waiting For Columbus dei Little Feat. Il quel nostro primo incontro chiesi a Eddie di dirmi qualcosa dell’album, e le sue parole furono: “Credo sia buono… Spero che vada bene.”

Quando ho appoggiato la puntina sui solchi che davano voce a Running With The Devil, prima traccia dell’album, rimasi abbastanza indifferente. In tutta onestà, quando ascoltai Van Halen per la prima volta, pensai che si trattasse di una band che suonava come dei Deep Purple fatti di speed. Non mi colpirono per nulla, questa è la verità. Successivamente mi presi il tempo necessario per ascoltare con calma e comprendere a fondo tutti gli elementi di quell’album, solo a quel punto mi resi conto della portata di ciò che avevo di fronte. Il suono di Eddie era semplicemente impressionante – potente, carico di carattere e definizione – e malgrado sia stato successivamente “etichettato” come Brown Sound tutti i chitarristi iniziarono a chiamarlo “Oh mio Dio il suono di Eddie”. Dopo aver riascoltato Van Halen ho presto capito che Eddie sarebbe diventato il più importante chitarrista dopo l’avvento di Blackmore, Beck e Hendrix.

Nel momento in cui i Van Halen venivano celebrati come nuovi eroi del rock, iniziavo ripensavo a quell’incontro di poche settimane prima, e faticavo a capire come fosse stato possibile. Quella persona che avevo incontrato al Whisky era stata umile, riservata e aveva parlato con un volume di voce così basso che avevo faticato a sentire quello che mi aveva detto. Quello che si poteva ascoltare su Van Halen non era un chitarrista, ma invece un drago sputafuoco. Era un Titano, un gigante con una chitarra che aveva un suono potente come quello dei tuoni. Con la sua musica Ed-Eddie-Edward Van Halen riusciva a parlare agli dei.

Negli anni a venire ho ripensato spesso alla conversazione con Eddie e a quella frase riguardo all’album “Credo sia buono…”. Nel ’78 scrivevo di musica ormai da quattro anni, e avevo avuto modo di parlare con persone Jimmy Page, Ritchie Blackmore, Jeff Beck e John McLaughlin, ma nel giorno del nostro incontro Eddie era soltanto semplicemente Eddie, non aveva ancora conquistato il mondo e la sua personalità fragile e timida era ancora lì, in bella vista. Quando mi diede il suo numero di telefono mi confessò di abitare ancora a casa con i suoi genitori, cosa che mi lasciò letteralmente senza parole.

Eddie ed io restammo amici per dodici anni, e posso ricordare un’incalcolabile numero di ore spese a casa sua o a casa mia parlando di musica, di chitarre, e qualche volta suonando insieme.

Uno dei ricordi più vividi fu quella volta che Eddie si presentò a casa mia in una delle sue Lamborghini, portando con sé una Les Paul Burst del 1959. Allora vivevo in un appartamento affittato a Laurel Canyon, una di quelle zone dove solitamente il rumore più forte che si può percepire è il gracchiare di qualche cornacchia o l’abbaiare di un cane. Ai tempi possedevo un amplificatore Marshall vendutomi da Jim Marshall in persona, e Eddie non si fece ripetere due volte di accenderlo e di farmi ascoltare il suono di quella Les Paul. Quel giorno a Laurel Canyon cornacchie e cani si azzittirono sotto il volume spropositato di Eddie Van Halen che si lasciava andare ad uno dei tanti riff che gli ho sentito scrivere semplicemente mettendo le mani sulla chitarra e improvvisando per qualche secondo.

Quando Eddie alzava il volume ed iniziava a suonare si perdeva completamente in un mondo parallelo nel quale non esisteva nient’altro se non la sua chitarra. Non era in grado di capire cosa succedesse all’esterno, oppure se il volume che stava utilizzando fosse troppo alto… Anzi, era solito capirlo soltanto dopo aver già fatto saltare le orecchie anche a chi stava a mezzo isolato di distanza. Caspita è tutto molto tranquillo qui attorno, sarà meglio non fare troppo casino, questo era il tipo di frasi con le quali era solito dimostrare di essere una persona assolutamente fuori da ogni logica. Dopo che Edward se ne fu andato da casa mia l’inquilino del piano di sotto venne a bussare alla mia porta per dirmi che quello che la musica che aveva sentito era pazzesca. Mi chiese se fossi stato io a suonare, e ovviamente risposi di sì.

Un altro aneddoto divertente che ricordo su Eddie inizia con me e lui durante una delle nostre sessioni di cazzeggio a casa sua. Ad un certo punto lui si accorge di aver finito le mute di corde di riserva, e così saltiamo sulla sua Lamborghini e voliamo (letteralmente) al Guitar Center su Ventura Boulevard. Il negozio era mezzo vuoto ma Eddie si avvicinò in punta di piedi verso il bancone, dove un tizio rimase abbastanza stordito dal vedere uno dei più grandi chitarristi di sempre chiedergli svariate mute di corde. A questo aggiungete inoltre che Eddie, pronto a pagare, si volta verso di me perché si accorge di aver dimenticato soldi e portafoglio a casa. Da qualche parte nelle scatole dei miei traslochi dovrei avere ancora la ricevuta di quelle corde comprate per Mr. Eddie Van Halen.

Se però devo raccontare del più bel ricordo che ho in merito alla mia amicizia con Eddie, allora devo provare a riassumervi di quella volta nel 1985 che mi invitò perché lo accompagnassi a New Orleans per il NAMM Show. Quello che segue è un riassunto di come è andata.

La mia sveglia suona alle 05:30, ed immediatamente chiamo Eddie per fargli sapere che lo sto raggiungendo per andare all’aeroporto. Il nostro volo parte alle 08:00 dall’LAX, il quale dista quasi un’ora di macchina da casa di Eddie. Il mio telefono squilla pochi minuti dopo: “Dove cavolo sei?” Eddie non era solito salutare all’inizio di una telefonata. Salto sulla mia RX-7 e nove minuti dopo sono al cancello di casa di Eddie, quando mi apre la porta di casa lo trovo pronto per andare in doccia. Quando finalmente un taxi si fa trovare davanti alla porta di ingresso, Eddie si presenta con una lattina di Schlitz in mano: “Questa è la tua colazione?” chiedo io “No, ho mangiato anche un sandwich col tonno” mi risponde sorridendo.

Il nostro volo decolla e Eddie letteralmente sviene nel sonno pochi secondi dopo, talento sviluppato in ore e ore spese a viaggiare in lungo e in largo per il mondo, quando atterriamo Dennis Berardi – presidente di Kramer Guitars – ci aspetta per portarci all’Hilton dove avremmo alloggiato in quei giorni. Un’ora dopo eravamo seduti a cena alla NAMM All-Industry Dinner alla quale Eddie avrebbe fatto di tutto per non partecipare, ma Berardi aveva avuto la meglio. Sempre Berardi gli aveva chiesto di fare un inchino quando il suo nome sarebbe stato nominato durante i ringraziamenti della cena, ma Eddie si era rifiutato categoricamente. Al momento giusto si era limitato ad alzare il bicchiere salutando i presenti che lo applaudivano. Eddie odiava quel tipo di cose. Finita la cena facciamo una passeggiata lungo Bourbon Street e ci imbattiamo in un live club dove una cover band sta suonando Jump. Inutile dire che se avessero saputo chi si era fermato ad ascoltare sarebbero impazziti.

Alle 03:00 di notte rientriamo in albergo e troviamo Eddie Ojeda dei Twisted Sister ad aspettarci. Eddie lo invita in camera e loro si mettono a chiacchierare di ogni aspetto del modo in cui nasce e si sviluppa un brano. Era un po’ come guardare un mentore intento ad istruire il suo allievo. Edward spiegava a Ojeda come approcciava la composizione, quanto le sue chitarre favorite “fossero chitarre merdose” e che amava lavorare parecchio sulla tastiera, all’insegna della sua filosofia del “non voler impressionare nessuno…” Alle 08:00 del mattino riuscii a trascinarmi nella mia stanza.

Il giorno dopo il booth Kramer era gremito di persone che avevano sentito dire che Eddie Van Halen sarebbe stato lì. Malgrado Allan Holdsworth, Brian May, Ted Nugent e John Entwistle fossero a zonzo per la fiera, Eddie era sicuramente la persona più attesa… Emanava quel tipo di magnetismo che catalizza l’attenzione in qualsiasi tipo di occasione.

Mentre una folla urlante e implorante lo circonda, Eddie mi rivolge sguardi interdetti, sguardi che esprimono chiaramente ciò che sapevo benissimo essere il suo pensiero: “Cosa c***o ci faccio qui?” Anche Brian May e John Entwistle si fanno largo tra la folla per salutare Eddie e soltanto in quel momento lui si rasserena. Quella sera ci lasciamo coinvolgere in una festa su un battello sul fiume Mississippi, e durante tutta la serata l’unico argomento di conversazione è la possibilità di una jam session tra Brian May, Eddie e John Entwistle all’Hilton Hotel.

La jam prese luogo nella sala da ballo dell’Hilton subito dopo l’esibizione dei Bugs Henderson and The Stratoblasters (ovvero Seymour Duncan e alcuni suoi amici). La cosa che ricordo meglio di quella jam è lo sguardo di Brian May ogni volta che Eddie iniziava a suonare. Quella sera Eddie disse che gli sarebbe piaciuto molto collaborare con May: “io suonerei le tastiere per lasciare che sia lui a occuparsi delle chitarre . Malgrado lo stupore di Brian, sapevo che Edward era estremamente serio al riguardo. Capito che genere di umiltà?

Alle 05:00 di mattina Brian e Entwistle si ritirano nelle loro stanze, mentre io e Edward ci fermiamo a chiacchierare ancora un po’. Una volta sdraiato a letto non passano più di cinque minuti per sentire Eddie bussare alla mia porta: ha perso le chiavi della sua stanza. 45 minuti dopo, proprio quando ero finalmente riuscito a prendere sonno, Eddie bussa nuovamente alla mia porta per dirmi che aveva dovuto convincere il concierge dell’albergo il quale non credeva lui fosse realmente Eddie Van Halen.

Al rientro da quel weekend a New Orleans ero sicuro del fatto che al NAMM Show e alle sue cene, Eddie avesse preferito di gran lunga le nottate spese a chiacchierare. Valerie, allora moglie di Eddie ci aspettava a Los Angeles. In macchina, di ritorno dall’aeroporto, Bryan Adams risuonava ad alto volume dallo stereo, e Eddie era contento perché era un suo grande fan. Una volta arrivati a casa Van Halen io ero praticamente uno zombie. Le poche ore di sonno, gli Hurricane (drink a base di rum tipico di New Orleans), le corse fra gli stand della fiera e il costante alto livello di adrenalina mi avevano sfinito. Ero molto felice però, come raccontai a Eddie il giorno successivo.

Quel weekend del 1985 fu qualcosa di spettacolare, una delle esperienze più belle e surreali della mia carriera di giornalista. Ricordo che mentre ero intento ad ascoltare le chiacchierate tra Eddie, Brian May e John Entwistle mi sono ritrovato a chiedermi: “Hey, ma io cosa c***o ci faccio qui?

In un’occasione Eddie mi aveva anche rassicurato dicendomi che mi voleva lì insieme a lui, quello era il motivo della mia presenza, un’altra delle tante frasi gentili e confortati che era capace di regalare. Ero davvero molto legato a Edward Van Halen, lo sono ancora oggi, cosa che rende molto difficile accettare il fatto che da diversi anni non ci parliamo più. La nostra relazione si è rovinata ad un certo punto, diverso tempo fa, e onestamente non ne ricordo nemmeno più il motivo. Si tratta di una di quelle cose della vita per cui un giorno si è amici per la pelle ed il giorno dopo, inspiegabilmente, non ci si parla più.

La cosa che a volte faccio per ricordarmi di quel periodo così incredibile della mia vita è andare a riascoltare quella cassetta regalatami da Eddie dopo una nostra jam ai suoi 5150 Studios. Non è molto rispetto a quello che avevo, ma il bello dei ricordi è che nessuno riuscirà mai a toglierceli.


Steven Rosen
 


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