Stanley Clarke, "Up"

di Fausto Forti
21 settembre 2016

intervista

STANLEY CLARKE
Up
63 anni, talento, carisma e vis creativa che il tempo non ha minimamente scalfito: Stanley Clarke - a tutt'oggi un’icona del bass playing più solido e sofisticato - presenta la sua ultima creazione che ha semplicemente titolato Up...

A suo tempo si era autoproclamato “liberatore dei bassi elettrici e acustici” ed il suo School Days (1976) gli era valso il titolo di miglior bassista sul pianeta. Dopo oltre 40 album, con ogni uscita Clarke riesce a sorprendere, portando il suo basso oltre i confini, sfoderando una tecnica eccelsa e una verve che ogni volta lascia il segno.

Oggi è impegnato a proporre sul palco il suo nuovo Up (Mack Avenue Records) coadiuvato da un esemble di giovani promesse (il 18enne georgiano Beka Gochiashvili al pianoforte, il 21enne Cameron Graves alle tastiere e il 19enne Mike Mitchell alla batteria) ribadendo la sua vis creativa... come ha provato la sua esibizione al Blue Note di Milano qualche settimana fa.

Con The Stanley Clarke Band (2010) si era aggiudicato un Grammy come miglior album di jazz contemporaneo ed anche accade oggi con Up (2014), prodotto dallo stesso...

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bassista di Philadelphia.

Uno straordinario ricordo di Stanley Clarke sul palco, risale a circa 20 anni fa. Anno 1991: sul palco un autentico dream team! Herbie Hancock (tastiere), Wayne Shorter (sax), Omar Hakim (batteria) e, naturalmente, Stanley Clarke al basso.
Il repertorio è un mix di classici: da Goodbye Porkpie Hat di Charles Mingus a Footprints di Shorter (tratto da Adam’s Apple, 1966 ). Da Amethist Secrets di Omar Hakim a Maiden Vojage di Hancock. Sino a Cantelope Island, ancora di Herbie Hancock (tratto da Empyreans Islands, 1964): oltre 15 minuti di sarabanda, con un assolo di Clarke da brividi. Proprio da quel ricordo, ha inizio la nostra chiacchierata in quel di Milano.

Il soundcheck è appena finito e Clarke è ancora seduto sullo sgabello con il suo fedele Alembic Bass tra le mani...

Impossibile dimenticare quella sera. Che ricordo hai di quel tour del 1991?
Sono passati tanti anni ma lo rammento molto bene. La formazione era davvero fantastica e il repertorio sublime. Con Omar [Hakim] c’era una grandissima intesa, ma con Wayne [Shorter] il feeling era straordinario. Il suo Footprints era uno dei momenti più intensi dello show.

Dal tuo precedente lavoro sono trascorsi 4 anni. Cosa è successo in tale lasso di tempo?
In effetti, sono accadute un po’ di cose. Per cominciare ho cambiato etichetta, passando da Heads Up alla Mack Avenue Records. In realtà, considerati gli esigui budget oggi destinati alla produzione discografica, avevo pensato di pubblicare l'album con la mia etichetta: poi però si è fatta avanti questa piccola casa discografica molto interessata alla musica strumentale. A quel punto, ho accettato la loro proposta e abbiamo messo in cantiere il disco.

Quindi hai chiamato Stewart Copeland, giusto?
Sì, ho invitato in studio proprio il mio caro amico Stewart e da quelle session è nato Up, il brano che poi ha dato titolo al disco. Da lì è partito tutto. L’ho intitolato Up perché per me Stewart è il classico up-guy, quello sempre su di giri, il più entusiasta e determinato. Per non dire del suo drumming! Il brano è decollato subito e ci è stato chiaro che avevamo per le mani qualcosa di valido. A quel punto ho pensato che un assolo di chitarra sarebbe stata la classica ciliegina sulla torta, così ho invitato Joe [Walsh].

Come definiresti Up?
Senza dubbio il disco più energico, ritmico e upbeat della mia carriera. E dato, che ne ho all’attivo una quarantina, direi che è un ottimo risultato! Puoi definirlo jazz/rock, fusion o altro: per me resta un album di buona musica, nata con l’intento di divertirmi in compagnia di alcuni amici. Per di più musicisti superlativi!

In Up basso acustico ed elettrico se la giocano alla pari...
Direi che l’elettrico è il protagonista per via della natura dei brani. Ho suonato con il mio Alembic in sei brani, tra cui i primi tre della scaletta: quelli che, in un certo senso, definiscono il mio percorso. Ho utilizzato invece il mio Alembic Tenor Bass in due tracce (I Have Something To Tell You Tonight e Bass Folk Song n.7: Tradition) e il basso acustico in Trust e La Cancion De Sofia. Inoltre, ci tengo a citare anche l’assolo di basso acustico in Bass Folk Song n.13: Mingus e Bass Folk Song n.14, quest’ultimo fusione di due brani che ho composto in precedenza.

La Cancion De Sofia è un brano registrato dal vivo, giusto?
E’ tratto da un concerto dell'anno scorso a Sapporo, in Giappone, e con me, sul palco, c'era Chick Corea. Ho deciso di metterlo in scaletta come brano conclusivo: un finale perfetto. Mia moglie ha gradito! Ho dedicato Trust a mia figlia Nana: quando hai dei figli, a un certo momento succede che essi credono in te ma, viceversa, che la tua fiducia in loro vacilli. Il brano parla dei giovani e del loro cercare di soddisfare le aspettative dei genitori. Cosa non facile.

A proposito di atmosfere live, il disco non punta certo su particolari accorgimenti tecnici né troppi overdub...
Lo scopo era realizzare un album con i miei amici. Ogni singola session è nata all’insegna del divertimento, del piacere quasi fisico di suonare insieme. L’atmosfera che sono riuscito a creare in studio ha permesso di andare per eliminazione, creando un suono essenziale nella sua semplicità. Il che non significa semplicistico, né tantomeno banale. Tale reciproca confidenza ha fatto sì che il tutto si realizzasse senza alcuno sforzo, senza troppi ripensamenti né aggiustamenti in fase di editing. Ognuno arrivava in studio preparato e pronto a suonare. Posso dirti che per me è stata un’esperienza fantastica!

Passiamo alla liason basso/batteria: Up è un album che i batteristi gradiranno molto...
Il legame tra bassista e batterista per me è fondamentale... in qualsiasi tipo di band! In Up hanno suonato grandi batteristi come Stewart Copeland, Gerry Brown, John Robinson, Ronald Bruer e Mike Mitchell, alcuni tra i miei favoriti. Con loro mi sento perfettamente a mio agio: sicuro e libero di esprimermi al meglio. Con loro mi capisco al volo, a livello ritmico ed emotivo. La batteria, mi preme sottolinearlo, è uno strumento estremamente emozionale.

Va da sé che per realizzare Up ti sei messo in ottime mani. In studio hai chiamato dei sound engineering come Dennis MacKay [vincitore di diversi Grammy e artefice di successi targati Return To Forever, David Bowie e Jeff Beck] e Gerry “the Gov” Brown [quasi 50 dischi di platino e 15 Grammy]. Sarà anche stato il desiderio di suonare tra amici, ma di certo, nell’album, nulla è stato affidato al caso...
In effetti ho cercato di operare nelle condizioni migliori! [ride] Ottimi ingegneri del suono, ottimi amici e uno studio fantastico! Quasi tutti i brani sono stati registrati al The Village di Los Angeles: amo lavorare in quello studio, con la sua atmosfera retro anni Settanta e l’ambiente famigliare!

Entriamo nel dettaglio. Up apre con il funky/blues Pop Virgil, ulteriore omaggio a un membro della tua famiglia...
Si tratta di mio nonno. Si chiamava Virgil, e questo brano vuole ricordarlo con la sua atmosfera funky velata di blues, per riflettere il suo carattere deciso e risoluto, ma anche delicato ed emotivo. E’ nato da un interludio di drum&bass che di solito eseguo durante la performance live di School Days: ho sempre voluto che diventasse un brano a se stante. Inoltre, come potevo sbagliare il tiro avendo a disposizione la sezione ritmica di Michael Jackson? L’ho posto all’inizio di Up (e scelto come singolo) perché è il brano che meglio di tutti racchiude il significato del disco.

Di contro, Last Train To Sanity ha tuttii connotati del brano perfetto per una colonna sonora. Giusto?
Come forse sai, ho composto oltre 50 colonne sonore e altrettanti brani per orchestra. Qualche volta idee simili prendono a passarmi per la mente... come nel caso del brano che citi, che potrebbe essere il tema di un film ancora da girare. Parla di un individuo che ha un’epifania grazie alla quale rinsavisce. Sono felice che gli Harlem String Quartet abbiamo accettato di suonare in questo brano: sono stati con me in tour lo scorso anno e li volevo in studio a tutti i costi!

Passiamo al trittico di Bass Folk Songs. Pare tu ne abbia composte una ventina, nell’arco di alcuni anni...
E’ così. Solitamente ne inserisco una in ogni album e, prima o poi, realizzerò un disco unicamente di Bass Folk Songs. Per Up ho fatto la classica eccezione e ne ho inserite tre. Nello specifico, la n.13: Mingus è un omaggio a Charles Mingus suonato con il solo contrabbasso. La n.7: Tradition è nata pensando ad alcuni artisti con cui ho suonato in passato e che rappresentano la tradizione, un certo tipo di jazz. Mi riferisco a Horace Silver, Art Blakey, Dexter Gordon, Joe Henderson, Stan Getz tra gli altri. Ma, ironia della sorte, qui ho suonato con un Alembic Tenor Bass elettrico. La n.14, in verità, è l’unione di due idee distinte per solo contrabbasso che avevo battezzato Dance Of The Giant Hummingbird e Eleuthera Island. In questa traccia ho cercato di mescolare l’irrequieto movimento dei colibrì giganti del Cile con i rumori rilassati e tipicamente caraibici dell’isola di Eleuthera, nelle Bahamas.

Un altro omaggio è quello a George Duke, con il brano Brazilian Love Affair...
E’ una delle sue composizioni che amo di più. Ho deciso di inserire un suo brano in ogni album e show che mi vede protagonista quest’anno. In questo caso, ho voluto personalizzarlo con arrangiamenti marcati, una ritmica assai robusta e un tocco di vigoroso samba, cercando di sottolineare la passione che George nutriva per il Brasile, la sua tradizione musicale, la sua gente e il grande cuore. Ho cantato le sue parti, coadiuvato dalla splendida voce di Jessica Vautor. In questo brano puoi ascoltare anche un bellissimo intervento di Beka Gochiashvili al pianoforte.

Infine, vi è la riproposizione del tuo classico School Days che, volendo azzardare, risulta un poco al di sotto dell’originale presente sull’omonimo album del 1976...
Sapevo benissimo che l’idea di proporre School Days era potenzialmente pericolosa, ma il fatto che si tratti di un classico non significa che non puoi registrarlo di nuovo. Inoltre, dietro al drumkit si è seduto Gerry Brown, colui che vi ha suonato quasi 40 anni fa. La chitarra è del grande Jimmy Herring e credo se la sia cavata egregiamente. Ho rivisitato l’album School Days nel corso del recente tour [terminato poche settimane fa] e mi è stato detto che nel corso degli anni il brano è diventato un autentico bass-anthem...un must per ogni bassista che si rispetti. In ogni caso, non mi aspettavo una tale accoglienza da parte del pubblico.

Che bassi hai utilizzato in Up?
Il mio Alembic Signature a 4 corde ed il mio contrabbasso vecchio di 200 anni costruito in Germania. Poi ulteriori 2/3 Alembic e un Fender. Solitamente, tutti dotati di corde Rotosound.

Nessuno Spellbinder Bass?
Spellbinder è un marchio con cui ho collaborato per un certo periodo di tempo e che continua a produrre strumenti musicali, soprattutto bassi. Oggi quel sodalizio è finito. Sì, è probabile che io abbia utilizzato uno di quei bassi in un brano o due, non ricordo esattamente.

Passiamo ai progetti futuri. Sappiamo che all’inizio del prossimo anno uscirà un album realizzato assieme a Bireli Lagrene e Jean-Luc Ponty. Confermi?
Il disco è pronto e si tratta di un progetto acustico in trio. Conterrà brani originali: due di Lagrene, due miei e due di Jean-Luc. Più, le rivisitazioni di standard dei francesi Stephane Grappelli e Django Reinhardt. Per certi versi l'album si rifà a quello realizzato anni fa assieme a Jean-Luc e Al Di Meola... anzi, si potrebbe dire che si tratta di una nuova versione di quel trio! Uno dei miei brani si intitola A Bit Of Burd ed è un omaggio alla musica di Bud Powell [1924-1966] e Charlie Parker [1920-1955].

Prima dicevi del recente tour in cui hai rivisitato l’album School Days: hai registrato alcuni show per una possibile release discografica?
Non lo abbiamo proposto per intero, direi tre quarti, e in effetti abbiamo registrato una serie di date. Un possibile album live? Perché no. Il 2015 sarà un anno intenso per me. Ma, a conti fatti, quale non lo è stato? [ride]

Up, Mack Avenue Records


Tra i musiciti più influenti delle ultime quattro decadi, vi è Stanley Clarke. Dagli anni con i Return To Forever agli esplosivi album solisti degli anni Settanta, sino alle colonne sonore e le spedizioni nei territori più oscuri e inesplorati della fusion, il suo suono, il suo bass playing e il potente lirismo delle sue composizioni, hanno ispirato e istigato schiere di futuri musicisti ad imbracciare il quattro corde.

Con l'uscita di Up, Clarke colpisce di nuovo nel segno, riunendo attorno a sé alcuni amici con cui suonare divertendosi e trasferire all'ascoltatore tale sensazione.

Apre Pop Virgil che sfrutta appieno il potenziale di una sezione ritmica d'eccellenza. Ovvero, quella del periodo Quincy Jones/Michael Jackson: Paul Jackson (chitarra), John Robinson (batteria) e Greg Phillinganes (tastiere). Piu' il supporto di un’ottima sezione fiati, dando vita ad un horn-driven-funk tipo Earth Wind & Fire. (Con tanto di assolo di Robinson e dello stesso Clarke).

Protagonista di Last Train To Sanity è il contrabbasso che si muove sinuoso fra le trame di questo brano che potrebbe essere il tema di una soundtrack e che vede lo straordinario intervento degli Harlem String, evidenziando similitudini con il periodo d’oro dei Return To Forever. Da ascoltare con attenzione.

La title track è la traccia da cui ha preso forma l’intero progetto discografico, sfoderando con orgoglio il possente groove rock dato dal drumming di Stewart Copeland (e l’assolo di Joe Walsh).

Seguono 3 tracce per solo basso, appartenenti alle 20 catalogate da Clarke come Bass Folk Songs: la numero 13 (intitolata Mingus) è un interludio acustico di 60 secondi, omaggio al suo mentore Charles Mingus; la numero 7 (Tradition) vede Clarke alle prese con un basso tenore elettrico, mentre la numero 14 (fusione di Dance Of The Giant Hummingbird e Eleuthera Island) vede nuovamente Clarke impegnato col contrabbasso.

Trust è una sorta di divertissement, mentre La Cancion De Sofia è un elettrizzante brano suonato live con Chick Corea e registrato a Sapporo (Giappone) nel 2013.

Seguono la riproposizione del classico School Days e Brazilian Love Affair. Se quest’ultimo - omaggio a George Duke - è un’ode all’amico scomparso di rara intensità, la versione di School Days non entusiasma al pari della versione originale. Ciò che fece dell’originale un piccolo capolavoro (la batteria devastante di Gerry Brown, la chitarra incendiaria di Raymond Gomez, gli arrangiamenti spinti e, naturalmente, la performance maiuscola del leader...) qui vengono a mancare. E sebbene Brown replichi se stesso 40 anni dopo, il suo drumming difetta di grinta, mentre il talentuoso Jimmy Herring non riesce ad eguagliare la performance che fu di Gomez. Clarke supera l’esame, certo, ma forse era meglio evitare.

Pur se con un paio di episodi sottotono, Up si mostra un ottimo lavoro per palati fini. E se lo scopo di Clarke era di riunire degli amici con cui divertirsi a suonare, beh... lo ha raggiunto!

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