CARDINAL BLACK "Midnight At The Valencia"

di Francesco Sicheri
01 giugno 2025

intervista

Chris Buck
Cardinal Black
Midnight At The Valencia
Il 23 maggio 2025 segna il ritorno dei Cardinal Black con il loro secondo album, Midnight at The Valencia, pubblicato dall'etichetta indipendente Thirty Tigers. Il trio gallese—composto dal cantante Tom Hollister, dal chitarrista Chris Buck e dal batterista Adam Roberts—presenta un lavoro che fonde blues, soul e rock con una produzione analogica curata da Cyrill Camenzind presso i Powerplay Studios di Zurigo. L'album è descritto come il culmine di anni di esperienza e collaborazione tra i membri della band.

Chris Buck torna in prima linea con Midnight at the Valencia, il secondo album dei Cardinal Black, e lo fa mettendo in mostra una maturità musicale e umana che travalica il ruolo di semplice “chitarrista virtuoso”. Dopo essersi fatto conoscere su YouTube come uno degli interpreti più raffinati e melodici della scena chitarristica contemporanea, Buck ribadisce qui di essere, prima di tutto, un autore e un musicista completo, capace di costruire canzoni che parlano con autenticità e profondità.

Registrato presso i Powerplay Studios di Zurigo, sotto la guida del produttore Cyrill Camenzind, Midnight at the Valencia è un disco che affonda le radici nel classic rock, nel soul e nel blues, ma che si nutre delle esperienze personali...

l'articolo continua...

dei suoi autori. Alcuni dei momenti più intensi nascono infatti da vicende intime: Push Pull, brano centrale del disco, è un’elaborazione emotiva della perdita del padre di Chris, mentre Adeline nasce dal rapporto del cantante Tom Hollister con la propria figlia. Ma è proprio nella scrittura musicale e chitarristica di Buck che questi sentimenti trovano forma: ogni assolo è pensato come un’estensione della voce, ogni melodia costruita come un racconto.

Durante l’intervista che segue, Chris Buck si racconta con disarmante onestà: dalla pressione di essere “quello famoso su YouTube” alla necessità di rimettere sempre la canzone al centro, dalla scelta di limitare la propria presenza chitarristica per servire meglio il brano, fino alla consapevolezza che vivere di musica oggi significa anche reinventarsi, accettare la frammentazione dell’industria e mescolare ruoli. YouTuber, chitarrista, frontman, autore: Buck non si tira indietro da nessuna di queste definizioni, ma ne fa strumenti per un solo obiettivo – suonare, scrivere e arrivare al pubblico.
Midnight at the Valencia esce per Thirty Tigers il 23 maggio e sarà seguito da un tour internazionale che porterà i Cardinal Black per la prima volta in Nord America, nel Regno Unito e in Europa. Per Chris Buck, però, questo non è solo un disco nuovo: è il punto di equilibrio tra l’urgenza creativa e la voglia di raccontarsi davvero.

Ciao Chris è bello sentirti! Sappiamo che sei reduce da qualche giorno in Italia al Guitar Show di Bologna, come è andata?
Ciao, il piacere è tutto mio. Devo dire che lo show è stato molto faticoso, un gran rumore, ma comunque è stato bello essere in Italia. Ci hanno chiesto in tantissimi perché non avessimo mai suonato in nel vostro paese, quindi ora stiamo valutando di venirvi a trovare a febbraio prossimo, magari fermandoci a Milano, e forse anche qualche data più a sud.

Sei in tour con i Cardinal Black in questo momento?
Al momento stiamo facendo promozione. Il disco è uscito venerdì 23 maggio, mentre poco fa abbiamo cominciato con un tour nel Regno Unito… Poi pausa fino ad agosto, quando partiremo per un tour nordamericano, con qualche tappa in Canada. In ottobre saremo di nuovo nel Regno Unito, poi Europa continentale tra novembre e dicembre. Onestamente non vedo l’ora di poter portare i nuovi brani dal vivo, è davvero un’emozione fortissima quella che mi ha lasciato questo album.

A questo proposito. "Midnight At Valencia" ha una forte componente cinematografica, è molto descrittivo, se così vogliamo definirlo. È stata una scelta ponderata, oppure è qualcosa che è successo in maniera autonoma?
Assolutamente ponderata. Tendiamo sempre a scrivere in modo “tematico”. So bene che quando pensano a me e alla musica che posso scrivere, molti pensano immediatamente alla componente solistica, ma la verità è che adoro giocare con delay e riverberi: è lì che mi diverto di più. Direi addirittura che è il mio passatempo preferito, e pertanto questo approccio influenza molto il modo in cui scriviamo e suoniamo. Abbiamo registrato l’album negli studi Powerplay, vicino a Zurigo, un posto straordinario con una quantità assurda di gear vintage: la console Neve, tanto per dire, era originariamente della Disney, poi è passata a Stevie Nicks, e ora si trova lì… E noi abbiamo potuto utilizzarla per registrare l’album.

Com’è stato il salto dal primo album, che vi ha presentato al mondo, a "Midnight At The Valencia"?
Il primo album l’abbiamo realizzato con un budget limitatissimo, in un piccolo studio nel Galles. Dovevamo chiedere in prestito microfoni, preamp, amplificatori… Stavolta è stato tutto più “grande”, anche come esperienza di registrazione, basti pensare alla console Neve che vi ho menzionato poco fa. A parte il “contorno”, la nostra filosofia è rimasta la stessa: creare suoni che ti portino altrove. Con questo album volevamo fare qualcosa che avesse il respiro di un film, e se quello che si percepisce è un album dal taglio cinematografico, allora sono felice di dire che siamo riusciti a fare cilò che desideravamo.

Parlando della console Neve. La sua "magia" è qualcosa di reale, oppure è molto più legata alla mitologia che le circonda?
È difficile dire da dove esattamente provenga il suono. Quando lavori in uno studio con microfoni, preamp e outboard di quel livello, tutto, nel bene o nel male, contribuisce al risultato finale. Quello che posso dire, però, è che tutto ciò che abbiamo fatto passare nella Neve suonava bene. Che fosse la console, i preamp, i microfoni o il lavoro di chi stava dietro al banco, il risultato è sempre stato ottimo. Quindi, forse, quella magia è proprio vera.

Come si è evoluto il tuo modo di comporre rispetto a quanto hai fatto per il primo album?
Il primo album sembrava una raccolta di "greatest hits" di brani mai usciti. Alcuni pezzi risalivano addirittura al 2009. La band, allora con un altro nome, esisteva già in quegli anni, poi ci siamo separati e siamo tornati insieme nel 2021 come Cardinal Black. Per questo nuovo disco, invece, i brani sono nati tutti nello stesso periodo, in un’unica sessione creativa. Dopo il tour del primo album, eravamo tutti esausti, ma ci siamo rimessi subito a scrivere. Non sono uno che compone "su richiesta", quindi ho iniziato recuperando vecchie note vocali dai miei telefoni. Questo mi ha aiutato a rientrare nel giusto stato mentale. Una volta sbloccato il flusso creativo, i brani sono arrivati rapidamente.

Avete scritto tutto in un’unica fase?
Sì, l’intero album è stato scritto in due o tre mesi. Io e Tom siamo andati in un cottage nel Devon per lavorare in tranquillità. Abbiamo scritto, poi portato i brani alla band per gli arrangiamenti. Abbiamo avuto una vita intera per scrivere il primo album, e solo qualche mese per il secondo. Ma proprio questa urgenza ha reso il disco coeso, e diretto.

In "Midnight At The Valencia" ci sono album che provengono da vecchie sessioni di scrittura?
Sì, Breathe, un brano che è nato nel 2009 e che non era entrato nel primo disco. L’abbiamo proposta per il secondo, e Cyril – il nostro produttore – senza sapere nulla della sua storia, ha subito detto: “Suona come un brano del primo disco”. È stato un segnale chiaro che il nostro stile di scrittura era cambiato. Ci siamo evoluti come musicisti, anche se non ce ne rendiamo conto mentre succede.

Un elemento molto eloquente della vostra carriera fino ad ora, è che per la seconda volta avete scelto di fare un album intero, invece di pubblicare dei singoli. Una scelta controcorrente.
È una decisione che abbiamo preso fin dall’inizio. C’era chi proponeva singoli mensili o EP successivi, ma noi siamo cresciuti con l’idea di fare dischi. Sono nato nel 1991, sono a cavallo tra l’analogico e il digitale: ho sempre sognato uno stack Marshall, ma ho anche imparato a usare i modeler. Forse è una scelta che ci penalizza, ma il nostro pubblico apprezza ancora il valore di un album fisico, con una narrazione, un inizio, uno sviluppo e una fine.

A proposito di modeler, il mondo digitale oggi offre possibilità impensabili anni fa. Come lo vivi tu, a questo punto della tua vita?
Sono molto pragmatico. C’è chi pensa che io sia un purista legato soltanto alle Les Paul del ’59, o a strumenti vintage, ma in realtà uso qualsiasi cosa che mi può ispirare. Se un suono funziona, va bene per registrare, suonare dal vivo, ovunque. Vi faccio un esempio: per tutto il processo di pre-produzione di Racing Cars usavo un effetto Leslie dall’HX Stomp di Line6. In studio avevamo un vero Leslie, e quindi nel momento in cui è arrivato il turno di lavorare su quel brano lo abbiamo microfonato e registrato… ma Cyril Camenzind, il nostro produttore (che è molto “analogico”), ha detto subito: “Sì, suona più realistico, ma non è quello il suono della canzone”. Alla fine abbiamo usato il suono dell’HX Stomp. Non c’è nulla di sbagliato nel digitale: è solo un altro strumento nella catena del suono.

Alcuni brani del nuovo disco sono molto personali. Ci sono stati rischi emotivi nel mettersi così a nudo?
Decisamente. Rispetto al primo album, che aveva temi più generici – l’amore, relazioni, vita – questo è molto più personale. Adeline, ad esempio, parla della figlia di Tom e delle sue paure come padre. Ma il brano più delicato è Push Pull, che riguarda la perdita di mio padre. È stato qualcosa di molto “pesante” da realizzare.

Com’è nato "Push Pull"?
L’idea musicale era un vecchio memo sul telefono, risalente al 2015. Ho riscoperto quel giro di accordi e ci ho lavorato sopra, aggiungendo una parte centrale che ho poi mandato a Tom in un vocale di WhatsApp. Di solito non scrivo testi, lascio sempre fare a lui, ma stavolta avevo messo qualche parola per mostrare la melodia. Solo dopo ci siamo resi conto che quelle parole, che apparentemente non avevano un senso così chiaro, erano in realtà una reazione inconscia alla morte di mio padre, avvenuta due settimane prima.

Non deve essere stato facile trasformare quel momento in musica?
Quello che è certo è che non ce l’avrei mai fatta da solo. Ero troppo coinvolto emotivamente. Ma Tom ha capito subito da dove veniva quel testo e ha scritto tutto il resto. Ha parlato del vuoto, della confusione, di come ci si senta smarriti quando perdi qualcuno. Lo ha fatto con una delicatezza incredibile. È stato l’unico momento in cui l’ho visto davvero nervoso nel farmi ascoltare un suo testo.

Avete poi suonato "Push Pull" dal vivo?
Sì, anche se all’inizio non era nei piani. È diventato il pezzo con cui torniamo sul palco e diamo il via ai bis. C’è un momento di silenzio totale ogni volta che lo suoniamo, e credo che anche senza spiegare di cosa parla, il pubblico lo percepisce. È una connessione molto forte.

Chris, passiamo ad un argomento che riteniamo assolutamente fondamentale in questa chiacchierata. Ti sei mai sentito obbligato a mettere un assolo in un brano, o comunque a prendere delle decisioni, a causa della tua fama di chitarrista su YouTube?
Bella domanda. Oggi mi sento di rispondere di no. Forse tempo fa avrei risposto diversamente. Quando abbiamo fondato la band, i ragazzi mi hanno chiesto: “Vuoi che sia una cosa tua, tipo Chris Buck and the...?” E la mia risposta è stata: assolutamente no. Il mio obiettivo è sempre stato suonare in una band. Non voglio una carriera da chitarrista solista con contorno di band. Abbiamo scelto apposta Tell Me How It Feels come primo singolo perché aveva un solo chitarristico che poteva attirare il pubblico da YouTube. Ma il secondo singolo, Jump In, era completamente centrato sulla scrittura, con un solo brevissimo. Volevamo da subito mostrare che Cardinal Black non era un progetto per mettere in mostra la chitarra.

Ogni volta che ti sentiamo suonare, c’è una sorta di urgenza trattenuta, come se qualcosa stesse per esplodere. Penso sia legato al tuo modo di scivolare sui tasti e al senso di anticipazione che dai a ogni nota durante un assolo Anche la mano destra ha un ruolo importante: c’è sempre qualcosa che succede prima che la nota arrivi davvero. Questo crea molto pathos. E poi c’è l’uso dei salti d’ottava, che dà una qualità quasi “vocale” ai tuoi fraseggi. È qualcosa su cui hai lavorato consapevolmente o è emerso nel tempo, nel tuo percorso?
Credo che molto sia successo in modo naturale. Come in ogni percorso di crescita – personale, musicale o altro – tante cose non le scegli, accadono. Detto questo, sono molto critico con me stesso. Dopo ogni concerto, riguardo spesso i video che ho registrato con il telefono. Sì, ogni tanto li uso per i social, ma la verità è che lo faccio per migliorare. Vado in hotel e mi rivedo: dove ho suonato troppo? Dove ho esagerato? Perché dal vivo so di suonare troppe note. L’adrenalina ti spinge. In studio riesco a essere più controllato, ma sul palco è un’altra storia. Quindi no, non è stato un lavoro “cosciente”, ma neanche del tutto inconscio. Sono molto analitico. E quando parlo di “suonare come un cantante”, non mi riferisco solo a slide o bending, ma al pensiero melodico. Costruire frasi memorabili, dare punti di riferimento all’ascoltatore. I salti d’ottava servono proprio a questo: riportare una melodia sentita in registro grave in uno più acuto crea un legame, una narrativa interna. Per me, l’assolo non è più il momento in cui dimostrare tutto quello che so. È un pezzo della canzone. Deve spingere il brano in avanti, creare un climax, condurre in modo naturale alla sezione successiva – spesso al ritornello. Costruisco gli assolo come piccole storie: inizio basso, salgo, esplodo. Proprio come un buon racconto. E in fondo, non è qualcosa che posso “spiegare a ritroso”. È il risultato di vent’anni passati a suonare, ascoltare e cercare di capire perché certi assolo funzionano così bene. E provare, nel mio piccolo, a farlo anch’io.

In un brano come "Your Spark" si trova – giustamente - un assolo corposo.
Sì, perché in quel momento del brano aveva assolutamente senso. Quando sei al minuto quattro di un pezzo che non sarà mai un singolo, tanto vale metterci un bel solo. È un momento liberatorio, purché l’assolo sia funzionale. Se serve alla canzone, bene, altrimenti tanto vale tagliarlo. Push Pull, ad esempio, non ne ha. E va benissimo così.

È ovvio, però, che il lavoro che avete svolto per questo album è stato anche indirizzato alla sintesi…
È vero. Il motto è sempre stato: “Se non serve, lo togliamo.” Cyril, ci ha aiutato molto in questo. Dopo le prime registrazioni ci ha fatto notare che stavamo allungando troppo certe sezioni, in particolare i bridge. Abbiamo snellito ogni pezzo, e ne siamo usciti con un album più corto del precedente. Considerando che su YouTube la gente mi conosce per assoli anche molto lunghi, ci tengo a ribadire che servire la canzone non è uno slogan. Vuol dire mettersi da parte, se necessario. In studio ho tagliato più di quanto abbia suonato. E va bene così.

Allora, è il momento giusto: raccontaci cosa hai usato in studio. Sento che ci aspetta una bella lista di strumenti interessanti…
Gli amplificatori principali che ho usato per quasi tutto il disco sono stati un Fender Deluxe Reverb del '66 e un Fender Vibroverb del '63. Quest’ultimo, in particolare, è un vero “Santo Graal” per gli appassionati: è stato il primo ampli Fender a montare simultaneamente tremolo e riverbero, ed è rimasto in produzione per pochissimo tempo. Ha due coni da 10", che sono il mio formato preferito — il mio punto di riferimento come chitarrista. C'è un aneddoto legato al Vibroverb: l’assolo di Your Spark l’ho registrato con lui, a volumi davvero alti, con un paio di fuzz, delay e altri pedali buttati dentro in catena. Quando siamo passati a registrare Push Pull — un brano molto più intimo e silenzioso — l’ampli faceva rumori strani che prima non c’erano. L’avevo letteralmente scosso fino all’osso. Ma Cyril, il nostro produttore, ha una filosofia chiara: anche se l’ampli è raro o prezioso, è fatto per essere suonato. Se si rompe uno speaker, una valvola, o un transistor, si cambia. Fine. E questo ti mette a tuo agio. Quindi a livello di amplificatori ho usato praticamente solo quei due: il Deluxe Reverb del ’66 e il Vibroverb del ’63.

E con le chitarre come è andata?
Ho portato in studio la mia Yamaha Revstar e una Panucci Goldtop, che è in sostanza una Les Paul. Ci tenevo che la Revstar finisse nel disco, e nella collezione di Cyril mancava proprio una Les Paul che mi convincesse al 100%. La mia Panucci suona alla grande, quindi ho deciso di portarla. Tutto il resto l’ho suonato direttamente in studio, pescando dagli strumenti che Cyril aveva lì. Tra questi, una Jazzmaster del ’63 spettacolare, presente in molte tracce. Ancora oggi mi sento in colpa: era già parecchio vissuta, con parecchia vernice mancante, ma l’ho rigata in maniera molto brutta, mon so nemmeno come. Probabilmente è stato il bottone di una camicia nuova che indossavo e che non avevo mai usato mentre suonavo. Fra le altre chitarre che ho usato c’era una Les Paul Junior TV Yellow del 1956 che, a quanto pare, è appartenuta a Keith Richards. Un’altra chicca: una vecchia Silvertone da catalogo Sears, con pickup goldfoil, brutta da suonare, perché molto impegnativa per quanto riguarda il manico, ma con un suono meraviglioso. L’ho usata per l’assolo di Adeline. Peccato che alla fine abbiamo infilato un Leslie sopra tutto, quindi a conti fatti non si capisce neanche che chitarra sia. [ride] Ho usato anche una Telecaster Blackguard del ’52. È diventata la chitarra “salvagente”: ogni volta che non trovavamo il suono giusto, tornavamo a prendere quella Tele. Funziona sempre. Infine una Stratocaster Olympic White, credo del ’63, che si può ascoltare molto bene nell’assolo di Holding My Breath. Era da tantissimo che non suonavo una Stratocaster, avevo proprio scelto di allontanarmene per non somigliare troppo ai miei eroi, e infatti appena l’ho imbracciata mi sono ritrovato subito a cercare quel suono. Letteralmente: stavo cercando di ricreare il timbro dell’assolo di Belief. E lì ho pensato: ecco perché ho smesso di suonare le Strato... e anche perché ogni tanto vale la pena tornarci.

Chris credi che d’ora in avanti la tua attività video su YouTube rimarrà sempre un po’ più secondaria rispetto al resto? Da quando l’attività dei Cardinal Black è decollata la tua produzione è sicuramente diminuita molto.
Mi manca fare video, ma penso che d’ora in avanti sarà così… Almeno per un po’ di tempo. Devo anche ammettere che da quando ho smesso di fare un video a settimana, ho ricominciato a godermeli. Non è più una routine forzata, ma piuttosto qualcosa che posso fare quando ho voglia. Mi scrivono in tanti dicendo che gli mancano gli appuntamenti della rubrica Friday Fretworks, e se avessi più tempo li farei volentieri. Ma oggi la band è la priorità. In passato mi dava molto più fastidio, ma oggi se mi chiamano YouTuber, va bene. Se mi aiuta a vivere suonando, chi sono io per lamentarmi?

Hai mai deciso consapevolmente di separare la tua carriera tra YouTube e la band? Oppure pensi che prima o poi le due cose finiranno per scontrarsi? Ti preoccupa l’idea di restare “intrappolato” nella cosa di YouTube?
All’inizio, sì. Se qualcuno mi chiamava “YouTuber” mi dava fastidio. Una parte del mio ego pensava: non sono uno YouTuber, sono un musicista, un chitarrista. Poi ho avuto una conversazione onesta con mia moglie, che è sempre stata incredibilmente di supporto, ma è anche brutalmente diretta quando serve. E mi ha detto: “Beh, in fin dei conti, pubblichi un video ogni settimana… sei uno YouTuber”. Certo, una parte di me ha sempre vissuto con un po’ di disagio questa “attività parallela”, ma oggi non più. Ho rallentato con YouTube, ma non per un discorso d’immagine o per voler diventare “quello della band”. Semplicemente, non ho abbastanza ore in una giornata per fare entrambe le cose come vorrei. YouTube richiede tantissimo tempo. Anche un solo video a settimana è un impegno notevole. La gente pensa che basti il tempo che ci vuole per guardarlo, ma dietro c’è molto di più. Soprattutto da quando ho iniziato a concentrarmi sugli aspetti storici della chitarra, che richiedono ricerca, scrittura, revisione. I primi video li facevo a braccio, ma si sentiva: il 90% del tempo ero lì a dire “ehm… uh…”. È stato allora che ho capito che, se volevo farlo seriamente, serviva scrivere, studiare, montare. E tutto questo richiede molto tempo, che oggi non ho più. Credi che anche per una persona “in vista” come te, oggi è difficile vivere di musica? Perché spesso per molti spettatori avere molti follower significa anche avere molte persone che supportano la tua attivitàÈ più difficile che mai. Il mondo della musica è frammentato, serve inventiva per restare a galla. Se riesci a campare suonando una chitarra, hai la mia massima stima. Non importa se arrivi al pubblico con un disco, un video, o una gag su TikTok. L’importante è arrivarci.

Da quando i Cardinal Black hanno preso il via ufficialmente, noti ancora un pubblico “spaccato” tra fan della band e tuoi fan di YouTube?
Sempre meno. All’inizio era evidente: da una parte quelli con la fotocamera puntata sulla mia pedalboard, dall’altra chi era lì solo per le canzoni. Oggi si sta mescolando tutto, e questo è bello. Se i Cardinal Black fossero solo un veicolo per la mia chitarra, avrebbero anche una scadenza, così come tutti i progetti incentrati esclusivamente sulla chitarra. Ma così, invece, sento che possiamo durare.

Quindi non temi che la tua carriera su YouTube possa soffocare la band?
All’inizio era un timore reale. Avevo paura che la gente mi vedesse solo come “quello dei video su YouTube”. Poi mi sono chiesto: quanta parte dei miei 200.000 iscritti o 30 milioni di visualizzazioni si tradurrà in ascolti veri? Anche una piccola percentuale basta, se poi qualcuno compra un biglietto. E quando vedi che il tuo primo concerto a New York va sold out in un giorno… be’, allora capisci che qualcosa sta funzionando anche al di là di YouTube. Che poi la gente sia lì per me, per la band, o per chiedere a Tom come cura la sua barba… chi se ne frega. L’importante è che vengano!

Alla fine, contano solo le canzoni.
Esatto. Si può parlare di pedali e pickup quanto vuoi, ma sono le canzoni che fanno tornare il pubblico. E noi stiamo cercando di scriverne di sempre migliori.

Chris, non vediamo l’ora di vedervi dal vivo in Italia. Non fateci aspettare troppo!
Lo prometto, stiamo già lavorando perché accada.

Grazie della chiacchierata.
Grazie a voi, è stato un vero piacere