MASTODON Emperor Of Sand

di Francesco Sicheri
17 maggio 2017

recensione

MASTODON
Emperor Of Sand
Reprise
Nuovo album firmato Mastodon, nuova trepidante attesa da affrontare cercando di lasciar libera la mente da ogni sorta di preconcetto; la band fondata ad Atlanta è una di quelle ancora capaci di muovere una buona fetta di mercato, grazie ad una fanbase ormai solida ed in continua crescita, ma soprattutto grazie ad un’immagine sonora e visiva costruita con grande perizia fin dalla prima uscita discografica. Emperor Of Sand, uscito il 31 marzo, prosegue un percorso che dal 2002 ad oggi ha rinfrescato non poco la scena metal mondiale, dando alle stampe alcuni dei capitoli più importanti e artisticamente validi degli ultimi quindici anni.

2002 – Remission
Primo LP, il sound è gutturale, richiama esattamente al pachidermico barrito che ci si aspetterebbe da un gruppo chiamatosi Mastodon. Primordiale, feroce, a tratti oppressivo per quanto gravosa e deteriorante è la compagine sonora, Remission ha ribaltato le regole del gioco per molti fan in tutto il mondo, ponendo le basi per una tipologia compositiva e per un trademark sonoro che si è evoluto senza mai perdere le sue caratteristiche principali. L’era di Remission è quella delle tematiche più epiche ed evocative, di mostri mitologici (che...

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troveranno però compimento soltanto nel successivo Leviathan), ma soprattutto degli elementali, degli spiriti della natura, e, nello specifico del fuoco. La grandezza di Remission si rintraccia soprattutto nella modalità di costruzione dell’impatto sonoro: quella dei Mastodon non è forza bruta ed incontrollata, ma piuttosto una meditata eviscerazione di sentimenti profondi che si tramutano in un colosso sonoro in movimento; è la processione di un fiume infuocato, un perpetuo riallacciarsi di motivi e intrecci sonori che cercano di elevarsi esorcizzando i propri demoni in un tumultuoso grido di battaglia.

2004 – Leviathan
Una delle copertine più riuscite dell’ultimo ventennio in ambito metal racchiude quello che è stato inserito da molti nella lista dei migliori album del genere. Leviathan porta i Mastodon là dove meritavano di approdare, ovvero fra l’élite del settore – si potrebbe azzardare a dire fra l’intellighenzia -, e dà il via ad una più tangibile concretizzazione dell’immaginario visivo del gruppo. La trama del concept, ispirata dalla trama di un libro tanto venerato come Moby Dick di Melville, lascia intravedere la possibilità di trovarsi di fronte ad un album destinato a divenire un nuovo classico. I fan più giovani comprendono di aver trovato nuovi eroi, contemporanei, duri al punto giusti e decisi a non fare prigionieri. Blood & Thunder, Iron Tusk, I Am Ahab, Seabeast, quattro singoli che anche da soli varrebbero il prezzo dell’album, accompagnati da lavori estremamente articolati e impegnativi quali Hearts Alive, Island, e Aqua Dementia, nella scaletta dell’album si iniziano a levigare le asperità di Remission, per incanalare i brani nel mostruoso comparto d’arrembaggio uditivo che troverà la più sua alta espressione in Crack The Skye del 2009.
Il seguito di Remission dà inoltre corpo al senso di evoluzione procedurale che sottende non soltanto il dispiegarsi interno dei brani ma anche l’andamento dell’intera discografica. I primi quattro album della band in particolare sono un perfetto esempio di continua evoluzione creativa, che nel caso dei Mastodon ha coinvolto non solo le tematiche, ma anche il grado di articolazione compositiva dei brani stessi.

2006 – Blood Mountain
Dopo due album di successo la band sembra ormai inarrestabile, ed a tutti gli effetti lo è. Blood Mountain non altro non fa se non lasciar cadere ancora più violentemente la scure alzata dal gruppo, lanciando quindi un ulteriore arpione verso la sfera sonora più propriamente prog di Crack The Skye. Il capitolo del 2009 lascia forse un po’ la presa dai veri e propri singoli – seppure brani come Colony Of Birchmen, The Wolf Is Loose, Crystal Skull spicchino subito dalla tracklist – concentrando il proprio impeto sulla messinscena di un dramma sonoro coeso, potente e di alto rango tecnico. Se con Leviathan si era andati a caccia dell’inafferrabile balena, con Blood Mountain si scala una montagna che obbliga ad un viaggio attraverso un terzo elemento naturale. Se Remission era il fuoco, e Leviathan l’acqua, Blood Mountain è la terra. Talvolta inspiegabilmente criticato per troppa perfezione tecnica, l’album del 2006 è un repentino cambio di tempo e di stile, che proprio nell’opener The Wolf Is Loose si esprime in tutta la sua furia e rapidità. Capillarian Crest contiene momenti di puro math-prog, ondeggiando fra improvvisi cambi dinamici e crescendo capaci di materializzarsi in un batter di ciglio; Brent Hinds e Bill Kelliher sono supportati dal drumming tentacolare di Brann Dailor, che insieme a Troy Sanders traghetta una sezione ritmica monolitica e sempre in risalto nel mix, eppure in grado di non calpestare i piedi a nessuno. È l’anno in cui le Major iniziano a capire ciò che ragazzi di tutto il mondo hanno ormai appreso come religione: da Atlanta è arrivato un gruppo in grado di reggere il passo con i Big.

2009 – Crack The Skye
La fama precede ormai ogni mossa della band, e l’arrivo sugli scaffali del nuovo album in studio infonde nei tanti appassionati quella tensione febbrile, a tratti nevrotica, che circonda gli eventi discografici più importanti. L’ascolto di Crack The Skye toglie il fiato a chiunque si fosse affezionato ai precedenti capitoli, 50 minuti di architetture melodico-armoniche volte a traghettare l’ascolto in un concept extra-terreno, o meglio ancora extra-corporeo, al limite della follia. La storia alla base di Crack The Skye coinvolge un bambino che sperimenta un viaggio extracorporeo durante il quale si ritrova ad essere inghiottito da un buco nero e successivamente ad incontrare Rasputin, il quale, per sfuggire all’assassinio, vuole impossessarsi del corpo del bambino. La realtà è che la follia creativa dei Mastodon ha visto coincidere le sue deviazioni tematiche con altrettanto intricate deviazioni sonore, le quali hanno dato la possibilità a Crack The Skye di aprire le porte su di un nuovo universo sonoro facente parte del multiverso Mastodon. I brani non si stabilizzano mai su di un groove per poi ricamare fitte orchestrazioni solistiche, la band piuttosto continua a pescare da un pozzo di idee apparentemente senza fondo, per poi inanellare il tutto nel tentativo di formare un discorso musicale più ampio. I 5’50” di Oblivion aprono il capitolo in un alternarsi di note profonde e lasciate a risuonare come ferali campane, e fungono da monito introduttivo per uno dei brani più riusciti dell’intera carriera del gruppo; una traccia di rara potenza, ma pur sempre melodica, che bene riassume il processo di maturazione artistica compiuto dal debutto sulle scene. Le atmosfere dilatate di Oblivion tornano a restringersi nella più diretta e concitata Divinations (la più breve del lotto), oppure negli strappati cambi di tempo di Quintessence, ma esplodono nuovamente nella narrazione musicale che si protrae nelle due suite, The Czar e The Last Baron. Crack The Skye è un album difficile, un lavoro che probabilmente ha lasciato molti fan perplessi in prima battuta, ma che nel corso dell’assimilazione è cresciuto fino a diventare un capolavoro inamovibile, considerato oggi alla stregua del culto per tutti coloro che si dicano metal-fan, o di chi voglia fare appropriata conoscenza del gruppo.

2011 – The Hunter
Nella vita di band così amate c’è sempre un elemento pronto a dividere i fan in discussioni di varia natura, e The Hunter è quell’elemento. Primo album pubblicato su major – Roadrunner affiancata alla storica Reprise per la distribuzione extra-US –, prima volta insieme al discusso produttore Mike Elizondo (Fiona Apple, Eminem, Alanis Morisette, Avenged Sevenfold e Maroon 5), e soprattutto primo non-concept album da molto tempo a questa parte. Ciò che ha fatto storcere il naso a chi era rimasto ammaliato da Crack The Skye è il ritorno a forme musicali più semplici, ma c’è anche da dire che questo ha a che fare soprattutto con la mancanza di una trama a legare l’un l’altro i brani della tracklist. The Hunter è sì un album composto principalmente di brani più brevi e condensati, ma non per questo pecca in quanto a bontà esecutiva e compositiva, soprattutto guardando alla nuova complessità delle linee melodiche della voce e delle armonie delle chitarre. Si potrebbe infatti dire che The Hunter ricopra bene il ruolo di “album catalogo”, mettendo in mostra così tanti diversi stili e generi da renderlo assimilabile alla stregua di una compilation. Nel disco sono contenuti brani dall’ispirazione profonda, come ad esempio la titletrack, dove Brent Hinds esorcizza la morte del fratello a causa di un attacco di cuore, ed allo stesso modo sono toccate tematiche più lievi e frivole - ma non per questo meno valide – come quelle riguardanti Swamp Thing (Bedazzled Finger Nails). La produzione è invece ciò che più si distacca dal passato, talvolta smussando un po’ troppo gli spigoli che tanto erano piaciuti precedentemente, e pertanto lasciando una fetta dei fan più estremi con l’amaro in bocca.

2014 – Once More ‘Round The Sun
Volendo trovare il vero e proprio crimine di The Hunter si arriverebbe però a nominare la pubblicazione di Once More ‘Round The Sun, senza ombra di dubbio la più debole uscita discografica della band. Nella scaletta di quest’ultimo sono pochi i brani che restano davvero in mente nel momento di sceglierne alcuni a mo’ di presentazione, e questo avviene perché difficilmente brani come High Road, The Motherload, Feast Your Eyes, oppure Ember City, riescono a traghettare compiutamente verso nuovi avvenimenti sonori. La verità è che sembra essersi è persa la caratteristica che era valsa alla band il riconoscimento di un’intelligenza artistica poco comune. Manca lo spunto sorprendente, il guizzo straniante, tutto sembra essersi assestato su di una linearità che è orfana di quel gancio tetramente affascinante dei dischi migliori. Sono veramente pochi i momenti in grado di soddisfare appieno, la carenza di originalità e di spunti coraggiosi è veramente troppo profonda per riuscire a soddisfare. Once More ‘Round The Sun è un disco comodo, anzi a dirla tutta sembra un disco “seduto”, che osa troppo poco e che sembra piuttosto mostrare un’ovvietà di soluzioni che ha lasciato in attesa di un rinsavimento generale.

2017 - Emperor Of Sand: ritorno all’oscurità
Eventi nefasti sembrano non riuscire a separarsi dalla carriera dei Mastodon, che con l’uscita di Emperor Of Sand tornano purtroppo ad esorcizzare la difficoltà d’affrontare situazioni dolorose, in particolare il cancro diagnosticato alla moglie di Troy Sanders, così come il cancro che ha causato la morte della madre di Bill Kelliher. L’emperor del titolo è a grandi linee una figura metaforica rappresentante un’entità in grado di controllare il tempo, sottraendolo all’uomo e alla vita, chiave di volta indubbiamente collegata alle vicende che hanno caratterizzato l’esistenza di tutti i membri del gruppo. L’artwork di copertina raffigura uno scheletro vestito da imperatore, e ben riassume i tratti funesti che sono riverberati, talvolta anche in maniera epicamente pestifera, dai brani che compongono l’album. L’ombra della morte e dell’ineluttabile scorrere del tempo, riempie le voci dei brani di Emperor Of Sand, che con Sultan’s Curse apre le danze grazie ad un riff cavalcante e dall’incedere “valchirico”, il quale serve solo ad introdurre quello che è un brano scritto nello stile a cui la band aveva abituato fin dal suo debutto. Come per le ultime produzioni lo screaming è praticamente inesistente, i brani dell’album sono molto melodici, e le voci ben ripartite fra Sanders, Hinds e Dailor. La melodia va però di pari passo con la potenza e la ferocia sonora che ci si aspetta dal gruppo, il quale è in grado di stupire anche con brani come Show Yourself, che per la sua indole pop lascerà basiti molti ascoltatori, riuscendo però ad infilarsi presto nella scelta di episodi meglio compiuti del lavoro. Le chitarre di Hinds e Kelliher feriscono a dovere, penetrano a fondo nella carne con il loro classico intrecciarsi in armonia prima di ripartire su riff che potrebbero essere stati intagliati nelle tracce con un’accetta. Il ritorno ad una sorta di concept (quello del tempo in via principale e quello della morte in maniera direttamente collegata) ha portato i Mastodon su una via che sembra addirsi molto più alla condizione raggiunta dal gruppo dopo diciassette anni di attività. Word To The Wise, Scorpion Breath, Precious Stones, oppure la potenza di Ancient Kingdom, sono esempi forti di un ritorno a quel tipo di composizione più articolata andata un po’ persa in tempi recenti, ma è anche evidente l’approdo ad una buona miscela composta dalla barbarie degli esordi e dalla maturità melodica di oggi. Il concept aiuta a conferire all’album un’aura ed un fascino che Once More ‘Round The Sun e The Hunter non avevano, ma è soprattutto il peso dei temi trattati a collocare Emperor Of Sand ai piani alti della discografia del gruppo. Forse non siamo di fronte ad un nuovo lavoro della portata di Crack The Skye, ma non è detto che ciò sia un male. Emperor of Sand è un album diverso, soprattutto sul piano concettuale. Abbiamo fra le mani il disco più terreno che il gruppo abbia mai realizzato, una manciata di brani da cui emerge chiaro come non mai il senso di vicinanza con gli uomini dietro la musica, e molte volte la violenza della cruda realtà ha un impatto più forte di qualsiasi altra idea.

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