MY MORNING JACKET Is

di Umberto Pol
01 maggio 2025

recensione

My Morning Jacket
Is
ATO Records
Ormai da anni si ha la sensazione che My Morning Jacket, la band di Jim James e soci, sia alla costante ricerca di qualcosa di non ben definito. Sembra quasi che talvolta procedano a tentoni, battendo sentieri e strade che possano illuminarne un po’ meglio le idee, o quantomeno, indicar loro alcuni possibili vie da percorrere. Il fatto è che, sebbene i membri della band appaiano sereni e appagati da questo instancabile peregrinare, sono gli ascoltatori che cominciano a chiedersi il perché di certe scelte, di certe derive e in generale di quel che sempre più ha i contorni di un palpabile spaesamento.

Tale sensazione, se vogliamo, è accostabile alla copertina di Is , il nuovo disco della formazione originaria di Louisville (Kentucky), dove il quintetto si presenta riunito in cerchio: espressioni corrucciate sul volto, mani appoggiate sulla superficie di un tavolo rotondo, aria di evocazione sovrannaturale. Partiamo dunque da qui, da questo spaccato a metà tra una seduta spiritica ed una bisca clandestina. Il primo elemento chiaro a suscitare interesse è colui che in studio siede alla consolle: niente di meno che Brendan O’Brien, ingegnere del suono e produttore con alle spalle una nutrita lista di...

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band, artisti e dischi epocali (tra i tanti, Vs. dei Pearl Jam, Evil Empire dei Rage Against The Machine, Drops Of Jupiter dei Train, The Rising di Bruce Springsteen). Altro punto fermo è la location in cui le session si sono svolte, gli Henson Recording Studios (già A&M Studios) di Los Angeles, gli stessi in cui fu immortalata - nella notte del 28 gennaio 1985 - nientemeno che We Are The World .

Passiamo ora alle canzoni che, a seguito di una fruizione prolungata, non danno segni di contributi speciali da parte di magiche forze esterne. Le dieci tracce dell’album rientrano tutte in quella placida aura di normalità in cui i MMJ cullano gli appassionati da oltre un decennio. Nessun picco creativo, nessun brano fuori dagli schemi, nessun passaggio realmente memorabile. Is scorre via leggero: intriga in alcuni momenti (Squid Ink ), desta curiosità in altri (Die For It ), stop.

Non ci ritroviamo tra le mani i primi titoli sfornati in studio dalla band, non siamo dalle parti, per intenderci, di The Tennesse Fire (1999), At Dawn (2001), It Still Moves (2003), Z (2005); inoltre siamo distanti dagli impasti di note, voci e sudore che trasuda un live imprescindibile come il doppio Okonokos (2006). Le promesse del passato, così come tante delle aspettative che la band aveva nutrito all’inizio del Nuovo Millennio, oggi trasmettono l’impressione di essere un vago ricordo. Is ci consegna un gruppo onesto e tirato a lucido, ben rodato, capace di divertirsi e (cosa non da poco) di divertire. Tutto funziona, dalla prima Out In The Open alla conclusiva River Road , passando per il singolo Time Waited (nel cui video spicca la sempre goduriosa Duesenberg Starplayer TV con battipenna dorato del solista Carl Broemel).

In fondo, tutto sommato non ci si può neanche lamentare troppo. D’altronde, per dirla con Luciano Ligabue, “chi s’accontenta, gode… così così”.

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