MARK FARNER "Closer To My Home"

recensione
Senza i Grand Funk, gruppi come i Rival Sons sarebbero oggi differenti sia nel sound sia nel look, i Gov’t Mule di Warren Haynes conterebbero una preziosa influenza in meno e non si sarebbero fatti le ossa per anni con un pezzo intramontabile quale Sin’s a Good Man’s Brother e, last but not least, il buon Homer Simpson risulterebbe orfano della sua band preferita: ovvero il power trio formato da Mark Farner (voce, chitarra), Mel Schacher (basso) e Don Brewer (batteria), quello di Footstompin’ Music e We’re An American Band,...
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dai volumi così impressionanti da essere considerato nei Seventies tra le più rumorose formazioni d’oltreoceano.
Ecco, a distanza di quasi cinquant’anni dallo stop ufficiale della prima e storica lineup, Mark Farner si presenta con un album capace di dimostrare a tutti i fan che, nonostante l’età, gli acciacchi e le operazioni chirurgiche, serve ben altro per fermare un rocker di razza. Battezzato Closer To My Home, il disco raccoglie dieci tracce ed è stato registrato presso lo studio Reel II Reel (nel Michigan statunitense) con la presenza di Mark Slaughter in veste di sound engineer e produttore artistico. Brano dopo brano, la sensazione resta immutata: la formula vincente dell’ex leader dei Grand Funk è la stessa che ci ha sempre fatto scuotere la testa e battere il piede, la voce tuona potente come ai tempi d’oro, melodie e arrangiamenti funzionano e colpiscono duro a suon di Parker Fly. Certo, non si può gridare al capolavoro e non c’è da ricercare nella tracklist l’ennesimo nuovo singolo per cui strapparsi i cappelli e perdere la voce a furia di cantarlo a ripetizione. Non siamo ai livelli dei lavori citati all’inizio di questo articolo, ma su una cosa però non si discute: Closer To My Home scorre piacevolmente dall’inizio alla fine, intrattiene e diverte, svolge alla perfezione il suo compito di comeback-album!
In definitiva, il ritorno di Mark Farner deve farci gioire per più motivi: da un lato, il fatto che uno dei più talentuosi autori della sua generazione sia ancora in forma invidiabile; dall’altro lato, il fatto che l’ascolto di canzoni fresche di conio come Anymore, The Prisoner (con tanto di sezione fiati in gran spolvero) e la grintosa Same Game sono in grado di suscitare la voglia di (ri)scoprire il grande rock del passato. Un tuffo nell’America che fu e che, considerato il periodo attuale, non può che farci tirare un apprezzabile sospiro di sollievo.
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