FRANCESCO PIU Crossing

di Umberto Poli
23 dicembre 2019

recensione

Francesco Piu
Crossing Point
Appaloosa Records
La storia si ripete, la storia siamo noi. Sempre più, in questo 2019 che volge al termine, dovremmo tenerlo a mente. Ricordando che i volti di coloro i quali - non solo in Europa, ma in tutto il mondo - attraversano disperati acque, monti, deserti, pianure, bruciati dal sole, assetati, affamati, in cerca di rifugio, ristoro e impiego sono come noi, anzi, sono ciascuno di noi. Molti artisti e gruppi, in ambito musicale, da Piers Faccini (I Dreamed An Island, 2016) a Rhiannon Giddens (There Is No Other, 2019) fino a Niccolò Fabi (Io sono l’altro in Tradizione e tradimento, 2019), hanno cominciato ad interrogarsi su tali questioni, mettendo a fuoco il tema dell’incontro multietnico, delle migrazioni dei popoli, dell’intreccio linguistico, puntando dito e riflettori sull’io in relazione all’altro. Ma chi è l’altro, se non il naturale riflesso di ciò che siamo?

Il chitarrista e cantante sardo Francesco Piu, nel suo nuovo disco in studio dal titolo Crossing, sembra voler partire proprio da questo assunto. Dove l’altro, in questo caso, ha nome, cognome, catalogo, punto di partenza racchiusi in una figura che non necessita di presentazioni: la leggenda del...

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blues, sua maestà Robert Johnson. Ma attenzione: non ci troviamo di fronte all’ennesimo tributo al padre di quel sound e di quelle canzoni che tanto hanno influenzato musicisti come Eric Clapton, Rolling Stones, Cream, Allman Brothers, fra i tanti. Piu inizia la sua ideale traversata andando a ripescare tra le muddy waters del Mississippi l’eredità in parole e note di Johnson per attuare su alcune delle sue più significative composizioni un doppio trattamento, sia geografico sia culturale. Ed è così che capolavori come Come On In My Kitchen, Hellhound on my Trail, Love In Vain, Crossroad Blues, If I Had Possession Over Judgement Day mutano pelle, si trasformano, diventano perle dal sapore world, compiendo un inedito viaggio dagli Stati Uniti al Mediterraneo e assumendo forma e sostanza di una materia prima da studiare, modellare, contaminare in ogni modo possibile con tradizioni e strumenti (talvolta) antichissimi. Ne risulta un mélange affascinante di influenze africane, arabe, indiane, italiane in cui il buon Francesco - con modernità, piedi ben ancorati nel presente e un pizzico di DJ scratch - strizza l’occhio alle svisate slide del Derek Trucks più esotico, bussa alla porta della premiata ditta Page & Plant di No Quarter, rispolvera con la memoria The Road To You di Pat Metheny, si abbandona ad atmosfere rurali degne del tomwaitsiano Mule Variations

L’aspetto interessante, il punto di forza del nostro, d’altronde, è stato (e resta) quello di sempre: ovvero la capacità di plasmare il proprio amore per il Blues d’oltreoceano in qualcosa di unico, personale, originale, partendo dai suoni e dalle suggestioni delle propria terra di origine, la Sardegna, per inserirli a pieno titolo in una visione d’insieme che unisce radici salde, universalmente riconosciute, a sviluppi sempre nuovi, imprevedibili. È dunque un piacere lasciarsi cullare dalle tracce di Crossing o - perchè no? - farsi letteralmente prendere per mano - come suggerisce il disegno di copertina - in un viaggio lungo terre e mari, vicini e lontani, in compagnia di una guida d’eccezione come Robert Johnson, qui nei panni di un contemporaneo - e alquanto groovy - Virgilio afroamericano.

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