JOHN MAYALL Talk About That

di Arturo Celsi
14 aprile 2017

recensione

JOHN MAYALL
Talk About That
Forty Below Records
Ok, parliamone… anche perché è il titolo stesso dell’album a chiederlo! Parliamo di cosa? Ovviamente del fatto che John Mayall, alla veneranda età di 84 anni, è tornato sulla scena con un nuovo album di studio, Talk About That, il terzo dal 2013...

Nel momento di ascoltare la nuova produzione dell’eterno Mayall – Talk About That (Forty Below Records) – è impossibile non pensare alla schiera dei chitarristi che, partiti dalle sue aule (… i suoi Bluesbreakers!) hanno preso il via nel mondo. Quello che Mayall ha compiuto negli anni Sessanta potrebbe restare infatti un caso isolato nella storia: non tanto per effettiva attuabilità, quanto per la magnitudo dell’influenza del suo operato.

Quando i bluesmen d’America erano sul punto di trasformarsi in un semplice, seppur candido, esempio di un’epoca in via d’estinzione, in Gran Bretagna l’attenzione per quel repertorio non era in nessun modo capace di scemare; anzi, con John Mayall a fare da direttore d’orchestra, una nuova strada era stata tracciata e con essa un nuovo genere di musica: il British Blues. Riassumendo, si potrebbe tranquillamente dire che Mayall creò il futuro! Il resto è storia, attribuendo a tale frase così tante accezioni da...

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rendere impossibile l’enumerarle tutte.

Quello che John Mayall ha creato nei Sessanta è noto ai più, inclusi coloro che il blues non lo hanno mai masticato… Degli esordi di Eric Clapton, di Peter Green e del nucleo originario dei Fleetwood Mac con John McVie e Mick Fleetwood, così come del trampolino di lancio di Mick Taylor, tutti sanno pressoché ogni cosa. Viceversa, le sue avventure più recenti non hanno goduto della stessa enfasi ma, ad uno sguardo più attento, risulterà ovvio che trattasi di episodi tutt’altro che trascurabili.
Sfogliando le pagine delle riviste più diverse, oppure digitando il nome John Mayall sui principali motori di ricerca, non servirà molto tempo per rendersi conto che l’uscita del nuovo Talk About That (27 gennaio 2017) abbia goduto di ben poca risonanza…

Miglior sorte era toccata ai precedenti Tough (Eagle, 2005) e A Special Life (Forty Below Records, 2013), ma anche in questi casi non si era potuto parlare di veicolazione adeguata. Data l’età, John Mayall potrà non essere oggi argomento da prima pagina per gli strilloni del web, ma non è certamente personaggio da trascurare… anche per il fatto che il chitarrista/cantante/armonicista/compositore britannico (classe 1933) ha messo in campo una produzione discografica il cui livello qualitativo saranno ben pochi ad eguagliare.

Restare fedeli a sé stessi evitando di essere ripetitivi, è una sfida capace di schiacciare senza far prigionieri, ed è per questo che molti giovani, così come taluni interpreti più esperti, finiscono per rinchiudersi fra comodità e sicurezze, cercando di sfidare il tempo senza andare all’attacco.
Talk About That invece, è un disco coraggioso: intendiamoci, lo è a suo modo, ma comunque mostra i muscoli e digrigna i denti, sorprendendo senza strafare e proseguendo su una linea di pensiero che dal 2017 torna indietro fino al 1965, anno in cui per la Decca usciva il seminale John Mayall Plays John Mayall.
Non è un ritorno alle radici, come hanno fatto da poco (e con successo) gli Stones con Blue & Lonesome, e non è nemmeno una rimpatriata stracolma d’ospiti d’eccezione. Quello di John Mayall è un nuovo lavoro a tutto tondo, che mette in mostra qualità note ma provando a dare il meglio di sé nello spingersi oltre lo steccato.

Di mosse facili Mayall ne aveva a disposizione moltissime, basti pensare che un album composto perlopiù di cover è stata anche la scelta dell’ultimo Clapton, così come di molti altri – alcuni anche giovani – colleghi. Eppure, per il 35esimo album in studio, Il Professore del Blues ha deciso di prendere di nuovo carta e penna e di dedicarsi alla composizione della maggior parte dei brani in scaletta; senza riserve e senza timori, portando sul tavolo tutto quello che una carriera fra le più longeve (forse la più longeva in assoluto tra quelle iniziate in Inghilterra nella prima metà degli anni Sessanta) poteva fornire.

Il solo fatto che a 84 anni si sia cimentato nella composizione di quello che è il suo terzo album in soli quattro anni, fa pensare che il passare del tempo abbia baciato Mayall con una benedizione unica e, quando la prima traccia (Talk About That), dà il via all’album omonimo, la conferma di tale presentimento arriva ineccepibile.
Il groove del basso di Greg Rzab apre in solitaria il lotto, che si espone senza paura in un tuffo di testa nel funk, muovendo sinuosamente le spire di questo brano che, per intensità, non avrebbe sfigurato in un album di Stevie Wonder, Tower Of Power, Shuffler, Mick Stover, o The Fabulous Thunderbirds.
L’impatto è forte, la tempra è quella di chi ha le note nelle ossa, oltre che sotto le dita, e la lineup che supporta Mayall (Rocky Athas alla chitarra, Greg Rzab al basso, e Jay Davenport alla batteria) macina ogni battuta in maniera serrata.

La produzione dell’album, brillante e fiera, rispecchia quella delle più recenti uscite di Mayall per Forty Below Records, ma Talk About That si permette anche il lusso dell’apporto di Ron Dziubla, Mark Pender e Nick Lane per quanto riguarda la sezione di fiati che brilla nella rivisitazione di It’s Hard Going Up, brano di Bettye Crutcher.

Ritratto in copertina mentre imbraccia una chitarra, Mayall si produce in ogni possibile esibizione partendo, per l’appunto, dalla seicorde, passando dalle vibranti note sui tasti di piano e tastiere, ed approdando all’inconfondibile armonica che, disco dopo disco, abbiamo imparato a conoscere così bene…

A fungere da regalo per i tanti appassionati del genere, appare Joe Walsh, (Eagles) che in The Devil Must Be Laughing e Cards On The Table lascia carta bianca al suo celebre slide, aggiungendo nuovi colori al progetto già estremamente variegato del leader. Sì, perché Talk About That non è semplicemente la nuova riproposizione della ben nota ricetta di Mayall, bensì un lavoro che si propaga nell’aria come un tributo alla tradizione nella sua essenza più vera, e non potrebbe essere diversamente dato che è lo stesso Mayall a detenere proprietà di gran parte di quella stessa tradizione... Talk About That è semplicemente un classico immediato e non serve nemmeno lasciar passare del tempo perché le tracce contenute possano essere iscritte all’albo dei libri consigliati per l’esame Introduzione ai fondamenti del Rock Inglese.

Serve un motivo per giustificare tale affermazione? Il più semplice di tutti: la classe non si compra, non si impara, e soprattutto non si imita. Qualsiasi altro interprete avrebbe potuto rendere in maniera eccellente i brani in questione, che in fin dei conti non sono che degli standard per quanto riguarda l’ambito rock/blues, ma la realtà è che i chilometri contano, l’esperienza conta, e ancor più conta la personalità. Quella di Mayall è inconfondibile: un marchio di fabbrica che non può essere confuso. Il nuovo album a suo nome porta chiari i solchi di una penna che ha dettato le regole base perché molto di ciò che oggi è considerato “classico” potesse essere scritto.

Non si tratta della sola esecuzione e nemmeno delle scelte in fase di produzione: quello che fa la differenza, nel caso di John Mayall, è il bagaglio di chi, dopo 50 anni, porta ancora freschi negli occhi i motivi grazie ai quali ha dato vita ad un movimento trans-generazionale…

Registrato presso la House of Blues Studio di Encino (California), Talk About That è stato prodotto dallo stesso John Mayall, assieme a Eric Corne (presidente della Forty Below Records). Alla realizzazione ha collaborato anche Joe Walsh (Eagles), peraltro ospite in due brani.

11 i brani della scaletta, di cui 8 originali e 3 cover: It's Hard Going Up ( Bettye Crutcher), Goin’ Away Baby (Jimmy Rogers) e Don’t Deny Me (Jerry Lynn Williams)


JOHN MAYALL: 10 cose da sapere…

1. Il padre di John Mayall – Murray Mayall – suonava la chitarra ed era un grandissimo collezionista di dischi. John si innamorò fin dal primo momento di chitarristi quali Lonnie Johnson e Eddie Lang che, insieme al piano-boogie di Pinetop Smith e Albert Ammons, furono il punto di partenza per la sua formazione.

2. John costruì una casa su un albero proprio dietro l’abitazione dei genitori, trasformandola presto nella propria camera da letto.

3. A 15 anni aveva già imparato, da autodidatta, a suonare il pianoforte, la chitarra, l’ukulele e l’armonica.

4. Il primo album di Mayall arrivò relativamente tardi nella sua vita: John Mayall Play John Mayall uscì per Decca nel 1965, quando aveva già 32 anni.

5. Nei primi anni di carriera, John Mayall suonò come seconda chitarra per moltissimi bluesmen americani allora in tour in Inghilterra: T-Bone Walker, Sonny Boy Williamson e John Lee Hooker, sono solo tre fra i più noti…

6. Perché John Mayall è considerato il padre del rock/blues inglese? Perché fra i tanti ad essere transitati nel suo combo, vi sono Peter Green, John Mcvie, Mick Fleetwood, Mick Taylor, Harvey Mandel, Walter Trout, Coco Montoya, Jack Bruce, Hughie Flint, Keef Hartley, Robben Ford, Eric Clapton e Sonny Landreth...

7. Ha studiato arti visive al Manchester College Of Art e, grazie a tale preparazione, ha disegnato moltissime delle copertine dei suoi dischi.

8. È famoso per effettuare session di registrazione estreme e brevissime: l’album Crusade del 1967 fu registrato in sole 7 ore!

9. Una delle più grandi influenze di John Mayall fu J.B.Lenoir e nel 1967 scrisse due brani in suo onore: I’m Gonna Fight For You J.B. e Death of J.B.Lenoir.

10. Dall’uscita di Blues Breakers with Eric Clapton la band di Mayall iniziò un periodo estremamente concitato, facendo anche 7/8 concerti a settimana!

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