Metallica - "Hardwired... To Self Destruct"

di Francesco Sicheri
13 gennaio 2017

recensione

Metallica
Hardwired... To Self Destruct
Blackened Records
Quando i Metallica pubblicano un nuovo album è fondamentale, per chiunque voglia cercare un angolo di propria quiete personale da dedicare al disco, prepararsi ad una vera e propria guerra. Il fatto è che dopo l’epopea discografica che ha seguito il Black Album, la band è soggetta ad analisi così minuziosa e critiche così approfondite da (teoricamente) non potersi permettere di sgarrare. Fortunatamente sembra che al gruppo poco interessi dell’imponente rimestarsi delle acque che lo circondano, mosse perlopiù da critiche che non hanno nulla da spartire con il nuovo prodotto, ma che piuttosto proseguono una diatriba divenuta ormai inutile.

È vero un peccato che molti fan, quelli più attempati così come quelli di nuovo pelo, trovino ancora produttivo spendere il proprio tempo a costruire castelli di rimostranze, soprattutto guardando a come queste non abbiano prodotto nulla di tangibile nel corso del tempo. Malgrado la combattuta accoglienza riservata al controverso St. Anger, nulla ha vietato al gruppo di dare alle stampe qualche anno dopo l’incomprensibile Lulu, così come, dopo aver spiazzato tutti con Load, l’indignazione degli appassionati non ha in alcun modo ostacolato l’arrivo di ReLoad, e di scelte contestate potremmo...

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elencarne ancora molte, per scoprire però come il gruppo abbia affrontato ognuna d’esse sempre allo stesso modo: guardando avanti senza grandi rimorsi.

Arrivati al 2016 si potrebbe quindi pensare che, con così tanti anni di esperienza alle spalle, anche il mondo abbia imparato ad accettare il gruppo per come è mutato nel corso del tempo, ma ovviamente questo non è avvenuto, la testardaggine sembra tutt’oggi prevalere ad ogni costo. In particolar modo sembra che qualche ragione misteriosa impedisca ai fan di abituarsi al fatto che ai quattro paladini della giustizia, ed in particolare a James e Lars, poco interessa dell’indignazione e delle sommosse, degli sguardi risentiti e delle paternali sul tradimento di un genere che hanno creato e portato ai massimi livelli. Niente di ciò li scalfisce, ed a supporto di questa teoria ci sono ben venticinque anni di storia a parlare chiaramente.

Dal 1991 la band ha intrapreso un percorso che non si è riusciti ancora a comprendere del tutto, ma che in maniera integerrima è stato portato avanti con sempre più forte convinzione, anche e soprattutto nel momento di fallire miserabilmente come accaduto nel recente episodio della pellicola cinematografica Through The Never. Qual è quindi la chiave di lettura per il nuovo Hardwired… To Self Destruct? I fan di vecchia data resteranno nuovamente delusi? Sì, senza ombra di dubbio, ma non necessariamente per colpa della musica, quanto piuttosto per una loro posizione presa ed ormai assunta a mo’ di emblema.

La parola d’ordine che da tempo gravita attorno al nome della band è “ritorno al thrash”, ed in particolare dopo che Death Magnetic aveva consegnato al mondo prove tangibili in questo senso. La grande ferita apertasi dopo il tradimento da parte del gruppo di quel mondo sonoro creato insieme a band come Anthrax, Slayer e Megadeth, probabilmente non si rimarginerà mai, un po’ per colpa della testardaggine dei fan di cui si parlava poco fa, ed un po’ per ragioni di pura e semplice natura umana. Chiunque abbia amato i Metallica della prima era, quelli che hanno a tutti gli effetti devastato il mondo intero grazie ad aggressioni efferate come Ride The Lightning o Master Of Puppets, sanno molto bene che quegli album, così come tutti i grandi “landmark” nella storia della musica, sono figli del loro tempo.

I primi cinque capitoli discografici del gruppo mostrano un percorso di cambiamento importante, sia a livello sonoro, sia a livello compositivo, percorso che non è certo distaccato dal processo di crescita dei quattro, partiti poco più che adolescenti ed arrivati a toccare le più alte cime del music business nel giro di soli otto anni. Per una band come i Metallica non si può assolutamente ragionare su di un nuovo album senza tener conto del fatto che gli anni trascorsi hanno segnato la pelle dei nostri in maniera importante.

La risposta quindi è “sì”, Hardwired… To Self Destruct riporta vagamente il calendario all’epoca thrash del gruppo, ed anche coloro che credono sia inutile ascoltare questo nuovo album si troveranno costretti ad ammettere che nei nuovi brani ci sono molti spunti vincenti ed esaltanti. Si può quindi tornare ad essere felici? Non così in fretta.

Hardwired può essere considerato senza molti timori il miglior exploit discografico della band dal 1991, non che servisse uno sforzo mostruoso nel raggiungere questo obbiettivo, ma è legittimo dare credito alla coerenza costruttiva e all’orchestrazione collettiva di un album che ha un suo logico principio ed una sua altrettanto logica conclusione all’interno di limiti sonori capaci, in generale, di mantenere un buon livello lungo tutta la scaletta. Come considerazione iniziale non è certo irrilevante, ma con i Metallica è anche normale non volersi accontentare della sufficienza. Ecco perché, pur volendo gioire del chiaro ritorno alla matrice compositiva che ha reso leggendaria la band, è difficile non accorgersi di come il tutto sia tenuto insieme da una pellicola di caricaturale nostalgia, elemento emerso da diverso tempo in sede live, così come dalla presentazione dei primi tre singoli di lancio tratti dal lotto.

In molti si prodigheranno nel vivisezionare Hardwired cercando di comprendere cosa abbia impedito al gruppo di dare alle stampe la tanto desiderata prosecuzione sonora del primo periodo della carriera, ma la realtà è che la risposta è molto, molto, più semplice da trovare. Quell’album, ormai idealizzato più del gruppo stesso, capace di ricongiungere fan e band con l’età d’oro della loro relazione, non uscirà mai, ed è giusto dirlo a chiare lettere. Troppe cose sono cambiate, troppi anni sono passati e soprattutto troppe forze non sono più lì pronte per alimentare il gruppo come facevano una volta. Manca la rabbia, ormai stilizzata a make-up da applicare sui volti dei quattro prima di salire sul palcoscenico; mancano i muscoli allenati; manca la fame, che inevitabilmente una band divenuta una multinazionale non conosce più.

Fa un po’ sorridere pensare ad Hardwired come ad un ritorno al thrash, quando pochi giorni prima è arrivato sugli scaffali Brotherhood Of The Snake dei Testament, quando non molto tempo fa abbiamo ascoltato For All Kings degli Anthrax, Dystopia dei Megadeth, oppure, uscito l’anno scorso, Repentless degli Slayer. Nessuna di queste band gode della forza esplosiva dimostrata agli esordi, ma lo stato di salute permette loro di sfoderare un’attitudine molto diversa rispetto a ciò che hanno, a più riprese, dimostrato i Metallica, chiaramente fiaccati dalla corsa che li ha visti dare fondo alle proprie energie nei primissimi anni di carriera, restando poi con sempre meno fiato a disposizione per far fronte alle vicende personali e discografiche che hanno caratterizzato il post-Black Album.

Hardwired… To Self Destruct incarna perfettamente lo stato attuale della band, ancora in grado di reggere il peso del proprio nome, ma indubbiamente vittima della sua stessa eredità quando chiamata a mettere mano agli strumenti per provare a dare alle stampe un album che sia effettivamente buono per essere considerato logica parte del puzzle. Questo accade perché la frattura creatasi con l’uscita di Load ha dato il via ad una nuova, tormentata, era del gruppo, ed Hardwired è il miglior capitolo di questa nuova era, è un album solido se preso separatamente, basato su idee e soluzioni che non sono assolutamente da scartare, ed è capace di dare un senso compiuto ad alcuni interessanti spunti che Death Magnetic aveva messo in mostra in forma ancora troppo grezza.

Certo parlare di un vero e proprio ritorno al passato è difficile, oltre che fondamentalmente sbagliato, per un numero di ragioni troppo alto perché siano spiegate in così poche righe. La forza positiva del ritorno di Metallica con un nuovo album è però tangibile, c’è un’emozione nell’ascoltare i nuovi brani che si prova solo con alcune band ed alcuni artisti. Il vero ritorno al passato è quello di chi vuole farsi nuovamente coinvolgere da un gruppo che ha colpito il cuore di tantissimi, e pertanto è un tornare a divertirsi ascoltando un disco che comunque ha molto di buono da offrire, e che dà il meglio di sé quando si evitano i paragoni con gli anni che furono.

Nel 2016, quando le uscite discografiche si accatastano l’una sull’altra in pile di file trascinate dal fiume dello streaming, è davvero bello tornare ad essere contenti per l’uscita di un album, è bello tornare ad aspettare e ad essere curiosi, finendo magari per accorgersi che il motivo di tanta attesa è più che valido. Se quindi, infine, volete un consiglio spassionato, attenetevi a queste poche parole: lasciate perdere i confronti, lasciate andare quel finto orgoglio tradito dalle scelte intraprese dal gruppo durante gli anni, solo allora sarete in grado di apprezzare al meglio il nuovo Hardwired, che immediatamente si trasformerà in un incontro con un grande amico che da troppo tempo si aspettava di rivedere.

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